Corallo, a convegno con i Miti della mia gioventù

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di Ninni Ravazza. Il giorno 1 ottobre del 2006 a Palinuro si avverarono i miei sogni di sempre, da quando avevo appena 7 anni: io, sommozzatore per gioco, mi ritrovai tra i relatori al Convegno sulla pesca del corallo organizzato dalla HDSI (Historical Diving Society Italia). Con me c’erano i miei Miti di una vita, i sommozzatori “veri” con cui mai avrei osato sperare di ritrovarmi attorno a un tavolo, a cena, davanti a una platea di ascoltatori: Raimondo Bucher, Claudio Ripa, Massimo Scarpati, Bubi Olski, Leonardo Fusco, Francesco Cinelli, il figlio e la moglie di Ennio Falco …

E io tra di voi … mi veniva voglia di dire. E’ stata un’occasione straordinaria, unica, meravigliosa. Non ci avrei mai creduto, il più bel regalo di compleanno che mi sarei potuto fare: quel giorno compievo 54 anni.

Emozionato come un bambino, presentai la mia relazione sul corallo del Banco Schercki, che qui mi piace riproporre …

<<L’ORO ROSSO DEL BANCO SKERKI

Una premessa: dall’età di quattro anni vado sott’acqua, da quando mio padre mi mise la prima mascherina Cressi e le microscopiche pinne Rondine, che ancora conservo nella mia bacheca dei ricordi.

A sette anni – era il 1959 – ho cominciato a leggere “Mondo Sommerso” di cui custodisco gelosamente la collezione dal 2° numero (mese di settembre, in copertina un’enorme ricciola e il subacqueo che l’ha arpionata) fino all’anno 1965. Sono praticamente cresciuto con le fotografie di Victor De Santis, Maurizio Sarra, Roberto Merlo e le avventure di Gianni Roghi, Gegè Iannuzzi, Claudio Ripa, Guido Treleani, e poi di Scarpati e Gasparri, e di tanti altri ancora. Era nelle cose che dovessi dedicare al mare gran parte della mia vita.

E di fatto il mare è diventato il fulcro attorno al quale ho costruito i miei interessi e la mia attività. Non sono divenuto un professionista – se per professionista si intende chi pratica esclusivamente questo lavoro – forse perché (come ha detto un amico, valente subacqueo, docente universitario) “conosco troppe parole”, e mi sarebbe stato troppo stretto limitarmi all’attività sub, ma per decenni sono andato a mare professionalmente – e continuo ad andarci – accompagnando le immersioni all’attività giornalistica e pubblicistica.

A mare – approfittando della pazienza dei miei genitori che pagarono a lungo le mie tasse universitarie di fuori corso – credo di aver fatto tutto quanto è possibile, dai lavori portuali alla pesca (intesa anche come attività lucrativa), dalla ricerca archeologica alla fotosub, all’assistenza alle più famose tonnare siciliane, dove ho collaborato con i rais per oltre vent’anni, diventando il loro terzo occhio quando le reti sono state portate a 40/50 metri dove lo sguardo attraverso lo specchio non poteva arrivare. Attività splendida, questa delle tonnare, per l’aura di leggenda che avvolge la tradizionale pesca del tonno.

Mi mancava il corallo, il più prezioso fiore degli abissi, leggendario anch’esso, epico con i suoi eroi solitari che sfidavano l’impossibile.

Avevo letto le “gesta” di Falco, Novelli, Olgiai, Garibaldi, Schmutz, Zoboli, Fusco. ma non avevo mai provato a fare il gran salto verso le profondità alla ricerca dell’oro rosso, anche perché era risaputo che nei mari di Trapani – famosi per il corallium rubrum pescato in maniera industriale già nel 1300 – i preziosi rami si trovavano a quote per me inaccessibili, oltre i cento metri. Ma il corallo era sempre nei miei pensieri, tentatore e irraggiungibile.

L’occasione per effettuare il grande salto arrivò nel 1978, quando a Trapani si diffuse la notizia che era stata trovata una grande quantità di corallo a profondità relativamente basse, 55/65 metri, sul Banco di Scherchi, una vasta piattaforma rocciosa a quasi 80 miglia dalla terraferma, in direzione ovest.

A Trapani arrivarono decine di sommozzatori – professionisti e non- e anch’io mi imbarcai sui pescherecci che, abbandonate le reti, presero a bordo i subacquei per cercare l’oro rosso.

La prima esperienza fu terribile: dopo una nottata di navigazione su un motopesca lungo meno di 13 metri, senza cuccette dove dormire, digiuni perché non c’era cambusa e l’unico cibo era costituito da una lattina di tonno sott’olio e poche olive salate, io ed i miei compagni non riuscimmo a lavorare su quegli scogli ad appena 54 metri dove il corallo cresceva rigoglioso e folto. Ci fu chi andò in narcosi e chi si fece trascinare dalla corrente impetuosa, e dopo appena un giorno ce ne tornammo avviliti e mortificati a terra. Il corallo però era lì, a portata di pinne, e l’idea di ritornare a Skerki, magari con uno scafo più comodo, divenne il nostro chiodo fisso.

Certo la vita sui pescherecci del tempo non era facile: in massima parte concepiti per la pesca costiera, non avevano cabine e cuccette per il riposo, di gabinetti e acqua dolce nemmeno a parlare, la tavola da pranzo era sostituita dai boccaporti appena ripuliti con una secchiata d’acqua di mare, non c’erano frigoriferi e dunque le derrate alimentari erano costituite da cibo in scatola, pane raffermo, un po’ di frutta, pasta da cuocere al burro o all’olio.

Però allo Skerki il corallo c’era, ed era tanto. Chi disponeva di un peschereccio più adatto, o magari sapeva affrontare meglio i disagi, tornava a terra con decine e decine di chili di rami rossi e grossi, e i commercianti napoletani cominciarono a fare la spola con Trapani per acquistare quel ben di Dio.

Dopo una seconda avventura ancora più traumatica della prima, con un capitano lercio e violento che davanti ad un subacqueo che accusava dolori ad una gamba minacciò che chi non si tuffava non avrebbe mangiato, tornai nuovamente al Banco Skerki, questa volta con un motopesca più grande, con un ampio castello a prua dove c’erano sei comode cuccette, una ghiacciaia che permetteva di conservare per qualche giorno carne uova e frutta, un equipaggio di bravissime persone. E questa volta il corallo lo prendemmo anche noi quattro amici che avevamo insistito a inseguire il nostro sogno. Con la mia parte del ricavato di tre giorni di immersioni acquistai la mia prima barca, un piccolo peschereccio di nove metri. Allora, nel 1978, il corallo fu venduto a 440 mila lire al chilo (pensate che un’auto utilitaria costava sui 3,5 milioni di lire).

Gli accordi con i proprietari dei pescherecci (che quasi sempre erano anche i capitani) erano questi: al gruppo di sub andava il 60 per cento del ricavato, alla barca il 40 per cento (carburante e cambusa erano a carico degli armatori).

Cominciava per me il sodalizio con Raimondo Meles, l’amico e compagno col quale ancora oggi vado a mare, quasi trent’anni dopo. Credo che sia un record nel mondo dei sub, dove le amicizie stentano a durare a lungo.

Era il 1978. L’anno successivo alcuni commercianti di Torre del Greco misero a disposizione dei subacquei grossi motoscafi per la campagna di pesca allo Skerki con l’accordo che a parità di prezzo il corallo l’avrebbero acquistato loro; io ebbi la fortuna di imbarcarmi sul “Sunrise”, un “San Lorenzo” di 14 metri al comando di Rudy, un amico che non c’è più. La vita di noi sommozzatori cambiò, la barca era comodissima, aveva anche un radar da 80 miglia, niente più cuccette maleodoranti di pesce e miseri pranzi sul boccaporto: dormivamo su letti puliti e asciutti, e le cene consumate nella dinette del “Sunrise” con una cambusa ricca di ogni ben di Dio erano da favola. Pescammo bene quell’anno, e anche se il corallo era sceso nettamente di prezzo – passando da 450 a 350 mila lire il chilo – guadagnammo un bel po’ di soldi. Ricordo che dopo la prima “bordata” di quattro giorni, tornato a terra con la mia parte acquistai una Renault 4 nuova, e altri soldi versai sul conto in banca.

Con l’armatore stavolta gli accordi prevedevano la spartizione al 50% dei proventi: noi avremmo pagato il marinaio e la cambusa, lui il carburante (spesa notevole, con due motori da 280 cavalli).

Lo Skerki è una grande secca rocciosa che si innalza sui fondali del Canale di Sicilia a circa 80 miglia da Trapani e 40 da Capo Bon di Tunisia, si estende per 18 miglia in direzione nord/sud-ovest; i suoi sommi sono tre: il Banco Silvia (tramontana), lo scoglio Keith (Banco di mezzo), il Banco di libeccio. All’inizio il corallo si pescò solo a tramontana e nei pressi dello scoglio, dove il fondale disegna lunghissime orlate che cadono da 25/30 metri a 55/65, e spesso bel corallo si trovò anche a 40/45 metri: tutti questi orli erano letteralmente pieni di rami rossi, pesanti anche 300/500 grammi ciascuno. Lo spettacolo che si apriva agli occhi del subacqueo era mozzafiato: pettate altissime nell’acqua cristallo, cernie, dentici, ricciole dappertutto, le aragoste da 2/3 chili si spintonavano per infilarsi in ogni buco, e non mancavano neppure gli squali, compresi i “martello” che però in verità non hanno mai costituito un reale pericolo per i sub. I problemi concreti erano costituiti dalla corrente spesso violentissima, e dalle lunghe navigazioni in mare aperto per tornare a terra quando il tempo si metteva male: chi non ha navigato 8/9 ore con lo scirocco che arriva sul fianco della barca non lo potrà mai capire.

Gli scogli erano letteralmente tappezzati di corallo, si lavorava in parete o nelle numerose grotte, e la profondità media era di 60 metri. Ogni immersione poteva fruttare anche 8/10 chili di corallo se il posto era quello giusto (ma all’inizio erano tutti giusti i posti).

Nessuno, ovviamente usava le miscele, si sommozzava ad aria spesso con normali bibombola da 20 litri più una terza bombola – da 4 o 10 litri – attaccata dietro; solo qualcuno aveva il bibo da 30 litri. Doppio erogatore, orologio e profondimetro, una tanica di plastica per reggere il coppo e fare da ascensore nella risalita, bomboloni di ossigeno industriale collegati col narghilé ad un erogatore, solo uno o due scafi avevano a bordo la camera di decompressione: era questa l’attrezzatura impiegata in quegli anni a Skerki. Nonostante tutto, non ci furono incidenti mortali, né particolarmente gravi.

La scoperta del corallo di Skerki comportò una rivoluzione nella vita sociale ed economica della città di Trapani.

Nel 1978 ufficialmente fecero base a Trapani, impegnati nella campagna di pesca sullo Scherchi, 80 sommozzatori; In quella stagione vennero pescati, e sbarcati a Trapani, almeno 140 quintali di corallo, che per la maggior parte furono acquistati dai commercianti di Torre del Greco, direttamente o attraverso intermediari locali. Nella prima campagna di pesca il corallo fu venduto a prezzi che andavano dalle 410 alle 470 mila lire al chilo. In tutto, dunque, il corallo portò a Trapani qualcosa come 6 miliardi di vecchie lire, una somma davvero notevole per il tempo, per una città che viveva di terziario.

Per avere un’idea della quantità del corallo pescato a Scherchi dai subacquei, basti pensare che nel ‘78 in tutto il Mediterraneo i sommozzatori ne pescarono 280 quintali, e le coralline con l’ingegno 700 quintali. Al largo di Trapani dunque fu pescato esattamente il 20 per cento del corallo mediterraneo, ed il 50 per cento di quello dei sub.

Nel 1979 il numero dei sub che operarono a Scherchi diminuì, ed il prezzo del corallo era sceso notevolmente, passando da 440 mila lire di media a 340/370 mila lire al chilo. In quell’anno i sommozzatori che facevano base a Trapani furono poco più di 50, e portarono a terra 65 quintali di corallo, per un valore complessivo di 2 miliardi e mezzo di lire.

Nel 1980 i sub sullo Scherchi si ridussero a 10, per un prodotto di 8 quintali di corallo. Le ricche orlate del Banco si erano pressoché esaurite, ed i nuovi scogli trovati a libeccio erano troppo profondi – oltre i 75 metri – per invogliare ad impostare campagne di pesca in un luogo così lontano (qui si è a circa 95 miglia da terra). Finiva l’epopea del Banco Skerki.

Io ho avuto la fortuna di vivere quelle avventure senza gli assilli finanziari di tanti colleghi e amici – sempre grazie ad una famiglia paziente e benestante – e questo mi ha consentito di guardare con un certo distacco a quello che mi accadeva attorno, di cui ho tenuto un diario che nel 2004 è diventato un libro, “Corallari”, che ripercorre quegli anni fantastici, raccontando di uomini e fatti che meritano certo l’attenzione riservatagli dall’Editore Magenes di Milano.

L’esperienza di Skerki, però, aveva aperto la strada per chi al corallo non volle rinunciare, e così con Raimondo continuammo a cercare il corallo sui fondali di Trapani, che poi così profondi a volte non erano. Mettendo un poco di acqua sui 60 metri dello Skerki, abbiamo fatto brevi campagne di pesca al largo della città e delle isole, su fondali di 70/80 metri, impegnativi certo ma non impossibili, vista anche la vicinanza alla costa.

Sui fondali trapanesi ho avuto modo di verificare i danni enormi arrecati dall’ingegno col quale per secoli è stato pescato il corallo: scogli frantumati e ridotti ad un ammasso di fango dove non ci sono più tane per pesci e aragoste e non crescono nemmeno le gorgonie, deserti senza colori né vita. Certo c’è una bella differenza con un fondale “lavorato” dai sub, con un prelievo selettivo: le nostre responsabilità le abbiamo, ma non sono certo da comparare con i disastri provocati da altri tipi di pesca.

Raimondo successivamente assieme a tanti altri corallari italiani e non si recò a lavorare in Tunisia, dove il corallo cresceva abbondante. Qui molti si immergevano già con le miscele, per affrontare i 100 e passa metri. Io me ne andai a lavorare in un giornale a Roma e per qualche anno il corallo uscì dai miei interessi immediati.

Il mare però restava sempre nei miei pensieri, e così appena possibile sono tornato a Trapani, ho comprato un’altra barca, ho ritrovato il mio compagno di sempre tornato dalla Tunisia, nel nuovo lavoro mi son messo part time per avere 5 mesi all’anno liberi, e ovviamente ho ricominciato ad andare a mare. Sempre professionalmente seppure magari non da professionista.

Quando le tonnare siciliane hanno sospeso l’attività per la crisi dei mercati orientali con alcuni compagni di un tempo ho ripreso a inseguire i miei sogni giovanili sugli orli fuori Trapani, a 70 e 80 metri, ricavando un po’ di corallo e molta felicità.

All’inizio dello scorso mese di luglio, ventisette anni dopo, con Raimondo e un giovane sub che non aveva vissuto l’epoca della corsa all’oro rosso, siamo tornati anche al Banco Skerki, alla ricerca di emozioni e sensazioni antiche, proprio come un’immersione nella nostra gioventù.

Ancora una volta lo Skerki è stato generoso con noi, per quattro giorni abbiamo sommozzato in un mare calmo come l’olio, senza vento e con poca corrente, e un po’ di corallo lo abbiamo trovato su alcune alte pettate un tempo tralasciate perché ritenute poco ricche. E’ stata un’avventura bellissima ma anche piena di malinconia.

Dove sono finite le enormi cernie di una volta? Le aragoste a decine? I dentici e le ricciole a branchi di migliaia? Non parliamo poi degli squali e dei delfini che un tempo ci accompagnavano nelle discese nel blu. I pesci sembrano spariti da quei fondali; in decompressione, trascinato sul basso fondale dalla barca a scarrozzo, non sono riuscito nemmeno a scorgere quelle nuvole di castagnole che quasi trent’anni fa oscuravano il sole.

Decine di pescherecci tunisini stazionano stabilmente sul Banco ormai disertato dagli equipaggi siciliani, chilometri e chilometri di reti restano a mare per settimane, mesi, e continuano a pescare e uccidere anche quando le barche sono tornate a terra per il maltempo. Le uniche aragoste che abbiamo assaporato sono quelle che un capitano nordafricano ci ha regalato in cambio di una bottiglia di vino. I fondali – sotto i 30/40 metri – sembrano un deserto.

Il poco di corallo rimasto viene sistematicamente cercato da sommozzatori spagnoli e tunisini a bordo di potenti motoscafi messi a disposizione da commercianti danarosi che hanno scelto Tunisi e Biserta quale base operativa.

Una riflessione conclusiva.

Accennando al ritorno a Skerki l’ho definito quasi un tuffo nella memoria: basta vedere le immagini per capire quanto io ed i miei compagni siamo rimasti ancorati a quel periodo della nostra vita, nostalgicamente ma anche un po’ anacronisticamente.

Le attrezzature impiegate sono le stesse di sempre, niente GAV, niente computer, ancora una tanica di plastica per riportarci a galla, un bischero per farci trovare dalla mazzara della decompressione. Quando capita che un subacqueo delle nuove generazioni mi vede andar per mare mi prende per pazzo.

E soprattutto – per quanto mi riguarda – niente miscele per andare là sotto.

Ho un lavoro, collaboro con giornali e riviste, scrivo libri, non ho la esigenza irrinunciabile di mettere metri su metri di acqua per guadagnarmi da vivere. E allora ho deciso di continuare ad immergermi con l’aria, non superando quelli che so essere i miei limiti, affrontando la narcosi che comunque a 70/80 metri si fa sentire, per quel senso di sfida che ci ha sempre condotto a violare le profondità, per non ridurre l’immersione ad un arido calcolo dei tempi di discesa, risalita e decompressione, insomma per non distruggere quell’aura di romanticismo che ha sempre accompagnato le mie immersioni.

Ogni qualvolta riemergo da un’immersione profonda con un ramo di corallo, una bella foto, anche con nulla come avviene tante volte, mi sento gratificato, l’autostima riconfermata mi ripara dalle possibili frustrazioni che la vita – e purtroppo anche l’età che avanza – possono riservarmi.

Quello che mi fa andare in bestia più di ogni altra cosa è sentirmi chiedere dai soliti benpensanti: “Ma chi te lo fa fare? Andare ancora a cercare il corallo, e poi alla tua età …”.

Io oggi compio 54 anni, 50 dei quali passati con la testa sott’acqua: e cosa cercava Gilgamesh, 2500 anni prima di Cristo, quando si legava una pietra ai piedi e si immergeva nell’Apsu, dimora di Enki, se non il corallo, la pianta dell’eterna giovinezza?

Ecco, forse è proprio per questo che continuiamo ad andare là sotto, per vincere il tempo.

Mi piace chiudere questo intervento con i versi che Raphael Alberti scrisse nel 1924 in “Marinaio a terra”: “Branchie vorrei avere/ perché mi voglio sposare/ la sposa mia vive nel mare/ e non la posso mai vedere …>>.

Palinuro, 1 ottobre 2006

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