LE POESIE DI MARE DI GUGLIELMO CAMPIONE

Print

Non sono in generale un amante della Poesia, purtuttavia ci sono composizioni che da sempre e per sempre mi affascineranno. “Zacinto” di Foscolo è una di queste, e anche “L’ultimo viaggio” di Pascoli mi rapisce per la demolizione che fa di uno dei miti miei e dell’intero Mediterraneo, Ulisse/Odisseo. Il mare sempre e comunque, anche per farmi gustare quei versi che altrimenti non avrebbero grande presa sul mio animo semplice. Ho letto le poesie di mare di Guglielmo Campione, medico psichiatra e psicoanalista, autore di sillogi poetiche e altri libri; mi piace qui riproporne alcune che ho trovato particolarmente coinvolgenti (con una chicca finale). (N.R.)

L’UNIVERSO IN UNA POZZA DI MAREA

Quando sulla costa rocciosa ma bassa e piana
il mare incontra la terra
l’ onda cava lo scoglio
non vi sed saepe cadendo
in una ragnatela di pozze
piccole e non profonde
seminando
il perenne precario equilibrio .

Se il sole li scalda
la pioggia li addolcisce
ma salini divengono
questi brodi primordiali
quando l’acqua si fa nuvola
e dove fu da una cellula Genesi
miliardi d’anni fa.

Lì,
tra una marea e l’altra
dove pur poco
il mare
tiene in vita
un piccolo universo brulicante

se ti rifai bambino
e come un bambino
ami sbirciare ed esplorare
della Patella vedrai
il piatto cono verdastro
dal muscoloso piede
che s’ avvinghia
come una ventosa.

E pascolando se ne va
in un tempo tartaruga
fra le alghe sulle rocce
per tornare allo stesso punto di partenza
e richiudersi
senza che alcuna fessura tradisca
la sua finta fusione con la roccia.

Sui tanti labbri della sua bocca di fuoco
per cui si apre il corpo purpureo
sta dell’ Attinia la corona
di duecento tentacoli
sicur veleno per pesci e granchi:
si chiude sdegnosa a palla
sputando l’acqua
quando il mare l’abbandona
aprendo invece
la bocca da Regina impudica
e la corona delle fruste sue
di pura Medusea bellezza
quando l’acqua torna sul far della sera.

Ore intere fuori da quel brodo
piccolissimi granchi
dal piatto liscio e verde zebrato

laboriosi stanno a spiluccare
mentre sul fondo

i grigioverdi occhi
del paleomon trasparente
ti sorvegliano
zizgando rapidi e imprendibili
se non metti le mano a coppa sotto loro
e come un fulmine uscir le fai
solo augurandoti fortuna
in quell’agòne impari.

Sotto le pietre
insieme ai ricci viola
fermo sta il gobide
e la bavosa dalle piccola corna
come l’anguilla viscida
che curiosa e veloce saetta in brevi voli
tra le alghe brune che amano la luce
o tra le dolci acque dell’alga insalata
le code bianche di pavone dai concentrici cerchi
e gli ombrellini di mare .

Ma nel nero profondo
di quell’universo
col carapace a cuore
bruno rossiccio o verde di sabbia e alghe
e bianco sul ventre
immobile sta il Re della pozza
sua Maestà il Favollo Granchio.

Grande fin quanto la tua mano
quando è anziano
acciambellato sta e di giorno dorme
ma collerico è
di grandi chele di disegual misura
come due corna dalla punta nera
e quattro zampe dalla punta a cuneo
dai cento peli sensibili come antenne
con cui zampetta sugli scogli
ed è per questo che si suol dir Pelosa.

Stanarlo puoi di giorno
se tempo, pazienza e due canne hai :
una ornerai
degli impiccati lo scorsoio nodo
con l’invisibile tradimento d’una lenza
sull’altra invece
un involtin farai
con polpo e filo.

Questa gli porrai dinanzi alla tana
mentre dall’altra
il nodo traditor
la chela attende
che s’affacci sulla soglia
dalla lussuria accecata.

Senza speranza
il Favollo
è vittima in vita
delle mollusche spire
e forse è per questo
che di vendetta è ghiotto
quando infierire può
con quello morto.

Se poi alla sera
una lampada ti guida
sulla costa oscura
e s’una canna infilzi un pesce
sereno dal buio
appena lo vede ci si fionda su
e il pescatore allora l’irretisce
e subito nel secchio lo trasborda
prima che nel rosso mare d’una pentola borbotti
e della gola
ti faccia prigioniero.

 

 

DIALOGO SEGRETO (da “Il lungo cammino del fulmine”, 2015 – 2017)

Lo so come sei :

nelle giornate di vento

quando sopra

ti fai incontenibile

e smanioso,

tutto

schiuma e onda,

sotto

ti rivolti limaccioso

e t’ annebbi

ai nostri occhi ansiosi e corti

che tradirono l’appartenenza.

 

 

FINIS TERRAE (da “Il lungo cammino del fulmine”, 2015 – 2017)

Un molo è un magico ponte.

Sedendo con le spalle alla città

puoi cancellarla d’improvviso

per il tempo che vuoi e puoi

volgendo di giorno

lo guardo all’azzurro del cielo

o al buio e nella notte di luna

col mare oscuro che fa paura

immaginandosi soli

in sua balìa.

Luogo di amore

di baci

e di sesso furtivo

d’ improvvise spinte delle viscere

fra i martirizzati frangiflutti

dove lo spinoso grongo

fa sua la tana

Insieme al granchio porro

Compagno

di profumata e saporita fine

nel mare rosso d’una zuppa

dove si canta

l’atroce e deliziata prepotenza

del piacere del palato umano

e dell’attrazione atavica

al Pesce

Primo Antenato

cui s’anela a ricongiungersi

ora in bocca e in pancia

domani

noi inceneriti

grigio bianca pastura per gli sgombri.

 

ODE AL RICCIO DI MARE (inedito, in anteprima per Cosedimare)

( dialetto pugliese di Bari e traduzione in italiano)

P pzzicà l rizz
avit a jess omn d’mar
chidd che von d cap  sott
e l ecchie apirt
com all timp antic
quann
c nu cntron
jind a na man
e na rezz p la spes
sott a u vrazz
l vicchie agnevane  l piatt.

 

 

Quann Pigghiat u fiat

e arrvat sott
allassat stà
l rizz gnor c l spin long
o chidd  assul e trist
ca s fascen vdè
sop alla ren  :

so Rizz mascue
oppur
so vacand .

Sciat
addó stè l erv
mmezz all chiangun
e ammnat l man
jind all
pertus

Tand avit acchià
rizz viol ,verd o marrón
c stonn in combagnì
com a na famigghie.

Chedd so femmn
so cchien d iov
e jind a u rizz
fascene na stell

Russ e arangion
Nu non l chiamam IOV
Dicim AMÓR
e u addor assemegghie a u Paravis

 

 

…….

per pescare i ricci

dovete essere veri uomini di mare

quelli che vanno di testa sotto

con gli occhi aperti

come ai vecchi tempi

quando

con un grosso chiodo nella mano

e nell’altra una rete

i vecchi riempivano i piatti

 

 

quando prendete fiato

e arrivate sotto

lasciate perdere i ricci neri dalle lunghe spine

sono ricci maschi e dentro sono vuoti

 

 

andate invece

dove danza la poseidonia

fra le pietre del fondo

e infilate le mani nei buchi

 

 

allora troverete ricci viola verde e marrone

tutti in compagnia come una famiglia

 

 

quelle sono femmine

son piene d’uova

e nel loro ventre  formano una stella

 

 

ross e arancioni

noi le chiamiamo l’amore

e il profumo assomiglia al paradiso

 

 

IMMERSA IN VELI (da “Epiphanio”, 2017)

L’ultimo oblio
sia quello
di chi mi fluttuò affianco
nel cobalto
del mar rosso profondo
che Mosè divise
col suo vincastro
inaugurando l’esodo :
i suoi neri veli
di medusa fluttuante
e leggiadra bellezza
gli occhi sviavano
dal desiderio
dei venerei tondi
là imprigionati
o a quegli stessi
venerei monti
lanciavano
la sfida del pomo di Paride.

Come regina bellissima
riccamente ornata
ma schiava
nella torre eburnea
del suo caftano
avanzava nel blu
come creatura aliena
ancora recante
nel corpo
la ferita
che inondò  faraone e fanti
e aprì il deserto
ai figli di Levi
e che ancora
ci tiene lontani.

 

 

L’Autore

Guglielmo Campione, studi classici presso il Liceo Quinto Orazio Flacco di Bari, dal 1976 vive e lavora a Milano come medico psichiatra e psicoanalista, apprezzato blogger (Stati della mente) e scrittore. È autore di libri di analisi del mondo contemporaneo e psicoanalisi, dei libri di poesia “Cuore di giovane maschio ferito” (2017) e “Il lungo cammino del fulmine” (1a ed. 2015, 2a ed. 2017), tradotto in inglese, portoghese, spagnolo, francese e tedesco. Coautore di “Quando scoppiò la pace, 25 aprile 1945”, antologia di racconti (Universitas Studiorum, 2017). Suoi racconti sono pubblicati sulla pagina antologica Letture da metropolitana.

 

Print

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*