La truvatura della tonnara

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Questo racconto è stato pubblicato qualche anno addietro su Repubblica; mi piace riproporlo oggi che si parla nuovamente di calare la tonnara di Favignana. I fatti raccontati sono solo fantasia, ma gli episodi richiamati sono davvero accaduti, separati gli uni dagli altri, nel corso dei secoli nelle diverse tonnare siciliane …

Ninni Ravazza

Cola odiava rais Peppe, lo considerava un usurpatore. Dopo la morte del rais Vincenzo il comando della tonnara di Favignana, la più famosa del mondo, toccava a lui, da troppi anni sottorais di uomini che se li sarebbe potuti mettere in tasca del gilet quanto a bravura. E invece i padroni quando Vincenzo si accasciò ucciso dal mal di cuore chiamarono un rais estraneo, uno che veniva da levante. E Cola capì che su quelle reti che conosceva fin da bambino non avrebbe mai comandato. Eppure aveva fatto di tutto per diventare il capo della ciurma a cui proprietari e tonnaroti danno del Vossia, aveva violato il segreto del rais raccontando ai padroni quel che succedeva in tonnara per ingraziarseli, gli portava i pesci migliori pescati quando le reti erano ormai conservate nello stabilimento e lui andava a mare con la sua barchetta, li aveva rassicurati quando rais Vincenzo cominciò a stare male e intanto ogni giorno di nascosto andava da donna ‘Nzina per ripetere le fatture che la majara aveva fatto per suo conto contro l’anziano rais, uova e fotografie trafitte da lunghe spille, una condanna senza appello. Solo loro due conoscevano le vere cause della sua morte.

Tutto inutile, con la nuova stagione era arrivato rais Peppe e lui era rimasto sottorais, ancora secondo a qualcuno; e poi chi si sentiva questo straniero arrivato nella sua tonnara a dettare legge, che aveva cambiato il posto delle reti portandole dove a sentire gli antichi c’erano le anime degli annegati che non si dovevano disturbare, e al ritorno a terra si faceva prendere in braccio dal capobarca per scendere dalla muciara con una collana di fiori al collo, manco fosse l’imperatore del Giappone?

Eppure di motivi per essere orgoglioso rais Peppe non ne aveva proprio! Di tonni quest’anno nemmeno uno se n’era visto, e tutti i tentativi per combattere la malasorte erano stati vani. La statua di Sant’Antonino tuffata a mare e poi posta a poppa della barca bastardo non aveva cambiato il corso della pesca, e nemmeno Sara che per un giorno aveva lasciato il bordello dove riceveva giovani pastori e anziani pescatori e di nascosto aveva fatto la pipì proprio nel centro della camera della morte come per fecondarla era riuscita a richiamare i pesci. La tonnara era una gebbia, una vasca vuota buona solo per le boghe e le occhiate, pesci scamali senza valore. “C’è il bistino lì fuori, e tiene lontani i tonni” disse il rais ai padroni, e anche se nessuno lo aveva visto tutti erano sicuri che i pesci non entravano fra le reti perché il Pescecane li faceva fuggire.

Stavolta solo Cola conosceva la verità, nemmeno alla majara aveva voluto dire nulla. Aveva sentito che una volta, tanti anni fa, i pescatori della tonnara di Vergine Maria avevano gettato un cane morto vicino alle reti dell’Arenella per non farci entrare i tonni, e così ogni sera con la sua barca di nascosto vogava fino alla cura e gettava a mare un cane, una pecora, due o tre galline sgozzate. Funzionava, i tonni interrompevano la loro corsa lungo la rete di sbarramento e se ne andavano chissà dove. Il bistino era sempre lì e la tonnara gebbia era e tale restava. Neppure questo però aveva convinto i padroni a licenziare rais Peppe, “non è colpa sua” gli dicevano “Vossia continuasse a lavorare tranquillo, prima o poi quella maledetta bestia se ne andrà”. La stagione però stava ormai per terminare e il 13 giugno era vicino, quel giorno al tonno “ci sbota l’occhio” e i pesci si allontanano dalla costa sfuggendo alle reti, chi li prenderà mai più?

Cola ricordava quando, bambino, andava col padre a pescare i saraghi sotto la tonnara di San Teodoro all’imboccatura dello Stagnone, a mezzanotte in punto la torre disabitata da secoli si illuminava e si vedevano le persone danzare, ma se scendevano dalla barca tutte le luci si spegnevano e la gente spariva; l’anziano padre una notte che i saraghi non volevano abboccare al conzo gli raccontò della truvatura della tonnara, il tesoro nascosto sulla torre dal padrone che gli mise a guardia l’anima di uno schiavo arabo a cui aveva tagliato il collo. Quel tesoro era ancora lì, pronto per chi sapesse coglierlo, ma per impossessarsene bisognava spegnarlo, rompere l’incantesimo, vincere il mistero e soprattutto arrivare al momento giusto, non un momento prima dell’ora destinata. E suo padre gli aveva detto che la truvatura erano tanti tonni, enormi e grassi, il tesoro del padrone della tonnara di San Teodoro.

Cola a queste leggende ci credeva e non ci credeva, ma il vecchio rais Peppe che tagliava le traunare col coltello dal manico nero sapeva che gli antichi hanno sempre ragione, e alla loro sapienza si rivolgeva quando non riusciva a risolvere una situazione.

Per Cola non fu difficile convincerlo. La truvatura della tonnara era là per loro, bastava andare in due a prenderla, di notte senza farlo sapere a nessuno, e le reti si sarebbero riempite di tonni. Per spegnarla non c’erano problemi, se un tempo serviva il sangue di un saraceno ora sarebbe bastato uccidere un gatto sul tetto della torre.

La brezza di maestrale gonfiava la vela latina del buzzo e non fu necessario nemmeno attraversare il canale tra Favignana e lo Stagnone, quando la barca arrivò abbastanza lontano dalla tonnara Cola col remo colpì alla testa il rais che cadde senza un lamento, i cantuna usati come ancora legati ai piedi del vecchio lo trascinarono sul fondo in un attimo, da domani Cola avrebbe comandato la ciurma e i padroni gli si sarebbero rivolti col Vossia.

La mattina alle sette in punto il barcareccio lasciò il porto senza il rais, e tutti si chiesero che fine avesse fatto. Qualcuno pensò che l’anziano pescatore, mortificato per l’andamento della pesca, fosse tornato sulla terraferma a casa sua; i più maliziosi ricordarono le carezze che il rais riservava al muciaroto Vanni “occhi d’oro” quando questo, stanco dopo un giorno di lavoro, si addormentava sul banco della barca che tornava in porto, e addebitarono la sua scomparsa al passaggio per l’isola di quello schifazzo comandato da un capitano giovane e biondo.

Cola per la prima volta in vita sua controllò tutte le reti scrutando il mare attraverso lo specchio d’acqua, “ancora i tonni non sono arrivati – disse – ma vedrete che domani suonerà la campana dello stabilimento e tutti sapranno che la tonnara è entrata in pesca”.

Ora non ci sono più cani morti sulla via dei tonni, le reti ondeggiano sotto la corrente di levante, ogni cosa è al suo posto. Il sole è tramontato dietro il Faraglione, dalla gariga sale il frinire delle cicale,  le occhiate in fregola sulla secca Sciubba increspano la superficie del mare. Cola non riesce a dormire, si rigira fra le lenzuola sudate, non può aspettare l’alba, il suo tesoro lo vuole godere da solo, per conquistare la truvatura ha bestemmiato Dio e ucciso due uomini. Sulla plaja a quest’ora non c’è nessuno, il caicco scivola silenzioso sul mare nero, l’uomo non si cura del verso della civetta che al suo passaggio si lancia dai merli del palazzo padronale affacciato sul porto, coi remi sfiora i galleggianti di sughero, le lippie delle ancore, nella scia luminosa della barca scorge la surriata dei tonni in amore che si strusciano le pance gravide, passa sotto la “palma” con i santi e fa il segno della croce, poi ormeggia la barchetta sopra la ucca delle reti. I tonni passeranno proprio qui sotto, li sentirà quando toccheranno con le ali e la coda le lenze invisibili che ha calato fin quasi in fondo.

Cola pensa a quando tornerà in porto coi vascelli carichi di tunnina e alle lodi che gli rivolgeranno i padroni, al suo nome che verrà inciso sulle lapidi affisse ai muri della camparìa, si accende una sigaretta dopo l’altra, rais finalmente. La brezza di terra reca con sé la fragranza dei gelsomini ma da domani saranno nuovamente le ciminiere dello stabilimento a spandere l’acre odore dello scapece che cuoce.  Un gemito attraversa la notte tiepida di giugno, si guarda intorno, nulla, solo buio, la Puddara si riflette sul mare immobile, non si muove niente, un altro lamento come di persone che piangono, l’uomo rabbrividisce, ricorda gli avvertimenti dei vecchi pescatori “questo è il posto delle armicedde dei morti a mare”. Un tocco alla lenza, un altro e un altro ancora, o sono tanti tonni o è un pesce enorme, rais Cola si sporge dal bordo del caicco, stringe gli occhi cercando di penetrare il mare scuro come l’inferno, è un attimo, l’acqua si apre, una mostro enorme e nero affiora dall’abisso, spalanca le fauci, lo afferra, appena il tempo di pensare “il bistino …” e il mare si richiude sopra di loro, la barca sobbalza. Poi tutto ritorna immobile. Tacciono le voci degli annegati.

Alle sette precise il barcareccio lascia il porto. Lo comanda il capobarca della muciara, oggi manca anche il sottorais, nessuno lo vede da ieri. Uscendo dal porto i tonnaroti col cappello in mano ascoltano la preghiera dei capibarca, “Un Padre Nostru a San Petru chi prea ‘u Signori pi ‘nnabbunnanti pisca” e tutti rispondono in coro “Che Diu lu faccia!”.

Sotto la croce dei santi i pescatori trovano il caicco che dondola pigro, la chiglia striscia contro il summo della tonnara e lancia un sibilo come di gente che soffre, a bordo non c’è nessuno, “prima rais Vincenzo, poi rais Peppe, ora Cola, la maledizione si è abbattuta sulla tonnara” piange il capomuciara. Un anziano tonnaroto guarda la barca vuota, le lenze ancora in fondo, e mormora “o viristi, o sintisti, troppo presto t’arricugghisti …”.

Dalla barca vinturera al centro della cammara un uomo grida “Ccà sunno, arrivaro i tunna”. Di Cola, rais per un giorno, nessuno si cura più.

(le foto, avulse dal racconto, sono delle tonnare di Favignana, Formica – fine 1900, di ninni ravazza – e di quella Saline a Stintino, nord ovest della Sardegna – per gentile concessione del prof Salvatore Rubino)

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