Trapani, la cucina dei marinai e le tradizioni perdute
Straordinaria. Non c’è altro termine per indicare la storia di una Trapani che non c’è più, della sua marineria e delle usanze perdute, raccontata da un uomo che l’ha vissuta intensamente, soprattutto sulle barche da pesca e sui piroscafi. Mario Cassisa, nato il 1919 nel cuore della città, nel quartiere San Pietro, e scomparso nel 2009.
Tre tomi (2005-2008) lunghissimi, affidati anni addietro all’editore Monitor e al suo direttore Salvatore Vassallo. Un’opera oggi pressoché introvabile, ma dal grandissimo valore storico, antropologico, culturale, nonostante l’Autore avesse esordito scrivendo “Questa è la storia della mia storia che non fa storia perché non sono nessuno. La storia della mia vita vissuta e le storie da me ascoltate da vecchi naviganti su bastimenti a vela del 1800, 1900 e sino al 1920 o poco più quando, io giovane, si navigava a vela su grossi bastimenti di “malafora”, termine che indicava la navigazione oceanica fuori lo stretto di Gibilterra. Durante la mia giovinezza mi ero imbarcato su barche da pesca … Questo libro è scritto con una scrittura semplice, dove narro le mie memorie di infanzia, la mia vita familiare e le rimembranze di Trapani antica, dal 1923 al 1940, della mia vita di garzone, operaio e pescatore di rete a strascico e nasse …”-
Al Lettore di Cosedimare vogliamo regalare un affresco nitido e colorito di uno scorcio di vita trapanese, sospeso fra tradizione e sapere popolare, tratto dal primo tomo, ringraziando ancora Mario Cassisa per averlo scritto e Salvatore Vassallo (con Monitor) per averlo salvato:
<<Dopo 40 giorni [dalla Pasqua] si festeggiava il giorno che celebrava l’Ascensione di Nostro Signor Gesù Cristo, era un giorno di festa e tutto il popolo si fermava, non si lavorava perché la festa era molto sentita; i pescatori non andavano a pescare, nel porto tutti i bastimenti, i piroscafi, le motonavi, le navi, ecc. che erano in ormeggio nelle banchine dl porto in segno di festa avevano la bandiera nazionale alzata nella più alta crocetta dell’albero di mezzana. Tutte le famiglie della gente di mare quel girono lo trascorrevano sui bastimenti di loro proprietà a bordo stesso cucinavano e pranzavano: la tradizione voleva che si mangiassero oltre la pasta col ragù di tonno e couscous, pesci come sgombri o aracoli (lardiati) arrostiti sulla brace viva col carbone vegetale e conditi con aglio pestato, pomodoro rosso fresco pelato, olio di oliva, origano e l’aggiunta di molto aceto di vino. Si tenevano a bagno gli sgombri e gli aracoli nei piatti o nelle spilonghe. Si preparava anche la tonnina salata e fritta nella padella con olio di oliva e si impiattava nelle spilonghe; si faceva la marinata con la cipolla affettata e fritta, rosolata in padella con olio di oliva e con abbondante aceto di vino a padella ancora calda quindi la marinata veniva versata sulla tonnina. Lo stesso trattamento si faceva per gli altri pesci, come minnole, bastarduna, ciavole e altre qualità di pesce che si marinavano in questo modo. Era il periodo del tonno. Allora tutte le tonnare delle coste del circondario di Trapani calavano le reti, le cosiddette tonnare e con le loro mattanze pescavano migliaia di tonni di quasi due quintali ciascuno e anche più. Erano 5 le tonnare di Trapani: dell’isola di Favignana, dell’isola di Formica, San Cusumano, San Giuliano e Bonagia e davano lavoro a centinaia di tonnaroti. Centinaia di donne e ragazze lavoravano negli stabilimenti delle stesse tonnare per la cottura del tonno per la produzione dello scapece in scatola, così si chiamava in dialetto il tonno nelle lattine. Di tutto il pescato del tonno, una parte veniva commerciato fresco nei mercati trapanesi, siciliani e italiani mentre la maggior parte veniva cotto e inscatolato. A Trapani la tonnina fresca veniva detta la carne di poveri perché costava poco. Il tonno negli stabilimenti veniva bollito secondo la tradizione di cammarioti, così venivano chiamati gli uomini che cucivano e salavano la tonnina e le interiora, in grandi pentole di rame rosso stagnati con acqua dolce e salata. Dopo la cottura il tonno veniva messo a scolar nelle ceste e quindi veniva confezionato in scatola con olio di oliva con dei macchinari che iniettavano l’olio nella latta e la chiudeva. Il prodotto fresco di tonnara veniva commercializzato nei mercati nazionali ed esteri.
Tornando alle tradizioni popolari del giorno della Resurrezione sul finire degli anni ’20, oltre alle grandi pietanze di tonno e pesce si cucinavano in grandi pentole le fave verdi bollite, carciofi, uova sode, polpi, ecc. A bordo di bastimenti era facile cucinare tutti questo cibi perché c’erano le cucine, mentre le famiglie dei pescatori, essendo le proprie barche piccole e senza cucine, preparavano queste pietanze a casa il giorno prima o la mattina presto. Con le loro barche andavano al Ronciglio, sulla sponda opposta delle banchine del porto, e trascorrevano tutto il giorno all’aperto a contatto con la natura, col sole e col mare. Le famiglie delle maestranze, artigiani, commercianti, che non possedevano barche andavano al Ronciglio a mezzo di battelli a remi a pagamento dove si trovavano molti barcaioli con barche a remi autorizzati dalla Capitaneria di porto; trasportavano dieci persone a viaggio, dalla banchina della Capitaneria al Ronciglio, nella scalinata vicino la casetta della lanterna verde all’entrata del porto; il prezzo era di mezza lira, cioè 50 centesimi di lira a persona. Ad otto giorni di distanza dall’Ascensione arrivava il giorno di Santo Liberante e, la cui chiesa si trova nella traversa nord, di tramontana, nella via Torre di Ligny, una piccola chiesetta ai piedi della scogliera sul Mar Tirreno. Si festeggiava come per l’Ascensione, col popolo in scampagnata: in campagna, in montagna, nelle spiagge, al Ronciglio, con le barche in mare e sui bastimenti ormeggiati al porto. Si seguivano le stesse tradizioni e si cucinavano le stesse pietanze del giorno dell’Ascensione e anche in quella occasione la tradizione voleva che ci si bagnassero piedi e mani in mare, che a quell’epoca era pulito e limpido; oggi questa tradizione non si potrebbe seguire perché l’acqua di mare è inquinata. C’era un detto che diceva in dialetto: “Santu Liberante l’occhi chini e i mani vacanti” (San Liberale, occhi pieni e mani vuote). Il detto era per significare che in quel giorno al Ronciglio, nelle spiagge, sulle scogliere c’erano molte donne e ragazze che scalze si bagnavano le gambe e i piedi a mare e allora gli occhi erano pieni nel vedere tante gambe di donne e ragazze ma le mani vuote perché non si potevano toccare. San Liberale era ed è il santo protettore dei natanti in legno, sia barche da pesca che bastimenti e quando le famiglie dei naviganti o dei pescatori non ricevevano notizie dei propri cari che erano in navigazione dato che allora non c’era la radio a bordo, i familiari a tarda notte andavano davanti il portone in legno della chiesa che era chiusa a pregare e sentire i nimmi, cioè in dialetto le notizie che erano quelle che si ricavavano dai rumori e dai detti di altre persone: se abbaiava un cane c’era speranza di notizie imminenti dei cari che si trovavano in navigazione, se al di sopra della strada passavano delle donne le notizie allora non erano buone. Le altre notizie si avevano ascoltando le conversazioni della gente che passava per strada, si ascoltavano i pianti dei bambini o dei neonati che portavano notizie buonissime perché significava vita e speranza che i propri cari che non davano notizie di sé tornassero sani e salvi a casa dopo lunghe e tempestose navigazioni. Si ascoltavano tante altre cose, secondo le tradizioni popolari delle nimmi che erano notizie da smorfiare. Vi erano poi molte famiglie di pescatori e naviganti che ascoltavano lenimmi da casa propria, senza andare nella chiesetta di San Liberale: a mezzanotte aprivano le finestre e i balconi e durante le notti tempestose ascoltavano le nimmi dei loro cari che erano in navigazione; recitavano una preghiera che diceva:
<San Pasquale pastorello
Santo e bello
Nelle piaghe del Signore
Siano impresse nel mio cuore
Nella vostra santità
Fatemi sentire la verità>
Quindi si ascoltavano le nimmi, i cani abbaiare, i bambini piangere, i discorsi della gente che passava per strada, ecc. e poi ogni cosa veniva smorfiata, cioè veniva dato un significato secondo il sapere tradizionale tramandato dalle nonne alle madri e alle figlie. Dopo tre settimane dalla giornata dell’Ascensione arrivava il giorno festivo del Corpus Domini che tra il 1925 e il 1940 era una festa che durava otto giorni, da giovedì a giovedì (o da domenica a domenica). Il primo giorno dopo la messa delle 8 celebrata dal vescovo nella cattedrale di San Lorenzo, alle 9 usciva in processione il Sacramento portato a due mani dal vescovo coperto col baldacchino portato dagli stessi parrocchiani con 4 pali e un bellissimo tessuto di coperta alle estremità superiori dei pali facendo da tenda. Il sacerdote con l’incensiere con la carbonella accesa emanava fumo bianco dell’incenso per tutto il tempo della processione e assistevano moltissimi tra sacerdoti, parrocchiani e cittadini provenienti dalla città e dalle province portando dei ceri accesi; molti bambini venivano vestiti da angioletti con le ali ed erano accompagnati dai genitori; seguiva il sindaco, il podestà e tutte le autorità cittadine e gli altri ufficiali militari di tutti i corpi. La processione era accompagnata da banda musicale, suonando musiche religiose e percorrendo la loggia, cioè il corso Vittorio Emanuele III. Si andava verso il Palazzo Cavarretta e si svoltava per via Torrearsa parte sud, si entrava in via Ammiraglio Staiti e si proseguiva per viale Regina Elena; si entrava quindi da via Ballotta, piazza San Francesco d’Assisi e via Corallai e di nuovo nel corso Vittorio Emanuele III parte ovest, seguendo il Corso fino alla cattedrale mentre le campane suonavano a festa e i fiori che venivano gettati dalla gente dalle finestre e dai balconi adornati con bellissime lenzuola ricamate a mano e bellissime coperte, copriletto colorati e bianchi che pendevano su tutte le vie che percorreva il Sacramento. Il giorno dopo usciva in processione il Sacramento di un’altra parrocchia e così via per le altre parrocchie della città (San Francesco d’Assisi, San Nicola, Salesiani, Sacro Cuore e il Santuario di Maria Santissima di Trapani). Il Sacramento di ogni parrocchia col proprio parroco girava in processione coi propri parrocchiani tra le vie del proprio rione per tre ore, dalle 9 a mezzogiorno, in quanto dalle 8 alle 9 si celebrava la santa messa. La processione iniziava tra l’entusiasmo dei parrocchiani e nelle vie del rione San Pietro per esempio, le donne facevano a gara a chi dovesse esporre dal balcone o
dalla finestra il lenzuolo migliore ricamato a mano oppure la migliore coperta o copriletto, tutto inghirlandato di fiori. Al passaggio del Sacramento le donne gettavano dai canestri fiori sfogliati. Per otto giorni, ogni giorno, per le sette parrocchie di Trapani c’era una processione del Corpus Domini, da domenica a domenica o da giovedì a giovedì, a seconda del calendario. L’ottavo giorno il Sacramento usciva nuovamente in processione da San Lorenzo, portato dal vescovo col solito orario dopo la santa messa, girando per le vie cittadine con musica e autorità cittadine come il primo giorno percorrendo le stesse vie. L’orario era calcolato dalle nove a mezzogiorno in modo che sacerdoti e parrocchiani fossero poi lasciati liberi per i propri fabbisogni personali e casalinghi. Allora nelle sette parrocchie della città vi erano molti sacerdoti, tutte le piccole chiese erano aperte e avevano i loro sacerdoti, mentre oggi le piccole chiese a decine sono chiuse e nelle parrocchie, escluse San Lorenzo e la Madonna, vi è un solo parroco. Nel palazzo vescovile, in corso Vittorio Emanuele III, c’era il seminario che alloggiava una trentina di giovani che studiavano teologia per entrare per diventare sacerdoti. Dopo la seconda guerra mondiale il seminario rimase chiuso, forse per motivi economici, dato l’alto costo da affrontare per tale opera seminaria>>.
(da “C’era una volta Trapani” di Mario Cassisa, Editoriale Monitor, 2005, Trapani)