Gli occhi del Rais. Una rivoluzione antropologica nel mondo della tonnara

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di Ninni Ravazza

Per secoli nel mondo immutabile della tonnara il rais è stato il signore assoluto, dominus e sciamano, archegete e re lo hanno appellato, detentore del potere e del sapere, e soprattutto della conoscenza. Solo per lui il mare non doveva avere segreti. Era lui e non altri l’Uomo del Mare. Si badi bene, “del” e non “di” mare. La differenza dal punto di vista semiologico è fondamentale: uomini di mare sono i marinai, i naviganti, i pescatori, quanti hanno con l’elemento liquido un rapporto di lavoro, financo i moderni diportisti e i pescatori dilettanti ma evoluti; uomo del mare è chi ha con l’acqua salata un rapporto intimo, quasi ancestrale, di amore e passione, fino a sentirsi parte di essa e contemporaneamente fatto di essa come se nelle vene piuttosto che sangue fluissero le onde del Mediterraneo, padrone e schiavo del medesimo elemento.

Non è difficile capire perché ai rais, i capi della ciurma di tonnaroti a cui fino a pochi anni addietro venivano affidate le reti per i grandi pesci e le sorti di intere comunità, venisse assegnato un ruolo che lo distingueva da tutti gli altri che pure calcavano i ponti di una barca: da loro dipendeva l’esito della pesca e dunque la ricchezza per il padrone e la sussistenza delle centinaia di famiglie che vivevano della pesca del tonno; nel corso degli anni, a partire dal XIV secolo, nella sola Sicilia sono state calate oltre ottanta tonnare, impianti fissi di pesca del tonno con le reti, e ogni tonnara impiegava fino a centoventi pescatori, ai quali si aggiungevano gli uomini e le donne dell’indotto, gli uni salavano prima e bollivano poi i saporiti tranci cantati già da Archestrato nel IV secolo a.C., costruivano le barche che non avevano altro utilizzo che la tonnara, vendevano il prodotto fresco nei mercati e nelle campagne, curavano la manutenzione degli edifici a terra, le altre d’inverno realizzavano le reti intrecciando ampelodesmo raccolto nei campi della contrada. Insediamenti umani e paesi sono sorti dove i pescatori si riunivano per calare la tonnara: Favignana in Sicilia, Stintino in Sardegna, e ancora Ceuta, Sète, Cetabriga e altri qui e là nel Mediterraneo. Un’economia fondata sulla pesca e un’antropologia culturale basata sui riti a quella legati.

E’ naturale che l’uomo a cui venivano affidate le sorti di uomini e paesi assumesse il ruolo di un semidio incaricato di fare da tramite fra la Natura con le sue forze imperscrutabili e la comunità che da quella natura attendeva i mezzi di sostentamento.

Il Rais, dunque, unico collegamento fra due mondi “altri”, la terra e il mare, gli uomini e la natura selvaggia, una sorta di medium in grado di creare quel contatto fugace che trovava la sua sintesi nella mattanza, la fase finale della pesca quando si contavano i tonni catturati e si facevano i conti della stagione di pesca.

In questo ruolo il rais rispondeva del suo operato soltanto al padrone, l’imprenditore che impegnava grossi capitali per un’avventura che poteva anche segnarne la rovina. Questa condizione, privilegiata per certi versi ma carica di responsabilità che non potevano essere divise con altri (il suo vice – sottorais – non aveva alcun rapporto col padrone, se non a volte di conoscenza, non certo di fiducia qual era quello che legava i due numeri 1 della tonnara), imponeva che il solo rais avesse la piena “conoscenza” della cose di tonnara; non il “sapere”, ché questo è stato spesso condiviso con altri tonnaroti bravi ed esperti, a volte in grado di assumere essi stessi il ruolo di rais (è più volte accaduto che un capobarca, o sottorais, venisse chiamato in altre tonnare a dirigere la pesca). La “conoscenza” in questo caso si riferisce principalmente alla consistenza dei tonni catturati fra le reti, in attesa di fare mattanza; nessuno all’infuori del rais doveva avere contezza del numero dei pesci ristretti nelle “camere” della tonnara, solo lui poteva anticipare al padrone la ricchezza di una mattanza, o tacergli la delusione per il mancato arrivo dei pesci tanto attesi. Sconfitte e vittorie gli appartenevano. Un errato calo delle reti era facilmente interpretabile anche dai tonnaroti più esperti, ma il numero dei tonni rinchiusi erano il suo segreto più intimo, e nemmeno al padrone diceva la verità, perché una delusione al momento di contare i pesci sul vascello lo avrebbe mortificato, e così quando era tempo di mattanza e si doveva preparare il ghiaccio per proteggere la tunnina dal sole si teneva una “riservata”, comunicava trenta – quaranta pesci in meno di quelli ipotizzati, lasciando la sperata sorpresa al conto finale quando i pesci venivano portati allo stabilimento e affidati agli “scugghiatori” (tagliatori).

Il problema era di avere un’idea abbastanza precisa del numero dei tonni rinchiusi nella rete, e non era questione da poco. Tralasciamo il “perito spiator di tonni” che dall’alto di una rupe avvistava i tonni entrare nel golfo e dava l’ordine ai compagni di cingerli con una rete trascinata dalle barche di cui parla Oppiano di Cilicia (sistema usato nei secoli, ancora negli anni ’50 del 1900 nel golfo di Trieste); all’inizio della campagna di pesca, verso la fine di aprile, i tonni nuotano rasente al fondo, e anche quando le reti venivano calate nei pressi della costa su fondali non altissimi era difficile scorgerli; diverse tonnare, peraltro, già nei secoli scorsi venivano calate su fondali di 40, 50, anche 70 metri, dove l’occhio dell’uomo non può arrivare. Per secoli i tonnaroti hanno messo in atto trucchi ed espedienti per indovinare l’arrivo dei tonni fra le reti, dall’aspersione di gocce d’olio sulla superficie del mare per renderlo fugacemente calmo e trasparente, all’impiego di sottili lenze calate sul percorso sottomarino invisibile per “sentire” il contatto col corpo del pesce, agli “specchi d’acqua” cilindri di rame col fondo di vetro che negli ultimi decenni consentivano al pescatori di scrutare fino a 20 – 25 metri, anche 30 se l’acqua era molto limpida.

A metà degli anni ’60 del secolo passato, però, accade qualcosa che sovverte quel mondo immutabile – e pregno di segreto – che era la tonnara: per recuperare i tonni e i pescispada che le reti ora di nylon invece che di fragile fibra vegetale trattenevano, e che sarebbero andati perduti e imputriditi facendo fuggire gli altri pesci, vennero chiamati a collaborare con i rais i sommozzatori, che nel frattempo cominciavano a disporre di attrezzature sempre più sofisticate, in grado di farli immergere fino a 50 – 60 metri; il primo sub “professionista” di tonnara fu Nitto Mineo, chiamato dai Parodi proprietari delle tonnare di Favignana e Formica; seguirono altri subacquei, trapanesi palermitani e messinesi, e poi ancora i sardi a Carloforte e Stintino. Era l’inizio di una rivoluzione non soltanto tecnica.

Con l’arrivo dei sub il rais abdicava a buona parte della sua “conoscenza”; non era solo lui, ora, a sapere quanti tonni c’erano fra le reti, anzi spesso era il sommozzatore a renderlo edotto della situazione. Nei mesi di aprile e maggio i tonni nuotano rasente al fondo, e non c’è specchio che tenga per avvistarli. Così l’antico dominus doveva affidarsi all’ultimo arrivato nel suo mondo, i suoi segreti non erano più tali. A lui spettava decidere quando e dove calare le reti, come posizionare l’impianto, ma poi era il sub a confermare che il posto era quello giusto, senza scogli traditori, che la rete scendeva perpendicolare fino in fondo senza lasciare spazi per la fuga dei pesci; ma soprattutto era lui che gli diceva per primo se i tonni erano arrivati, quanti erano, in quale camera fossero, se era il caso di fare mattanza, e quando era il giorno della pesca si metteva a 25-30 metri di profondità, sulla porta cannapa, e se li vedeva passare nel corpu era lui a dare il segnale strattonando la cima che teneva in mano di cui un capobarca teneva l’altra estremità. Era il sommozzatore e non più il rais a ordinare: “mattanza!”.

 

Il sommozzatore diveniva così quasi l’alter ego del rais, interlocutore anch’esso del padrone che fino al giorno prima non rivolgeva ad altri la parola; se il rais manteneva il riserbo, il padrone si rivolgeva al sommozzatore per saperne di più, per avere notizie di prima mano, per “conoscere” lo stato delle cose.

Quando in tonnara il segreto era tale, l’arrivo dei pesci fra le reti era comunicato ufficialmente al padrone, ai pescatori e all’intera comunità con un rito carico di suggestione, il suono della campana della chiesetta della tonnara: “Quando arrivavano i primi tonni c’era ‘a campaniata; di nascosto il capomuciara veniva a terra, gli altri non lo sapevano ma se lo immaginavano, entrava nello stabilimento dalla parte di Sant’Angelo, saliva sopra la torre e suonava, Ta ta ta, ‘na bedda scampaniata, allegria!”, racconta il rais Sarino Renda di Bonagia.

Attingo ora ai miei ricordi di sub della tonnara di Bonagia dal 1984 al 2003: un giorno i tonni arrivarono che ancora le reti non erano state calate completamente, nessuno li aspettava e io mi ero immerso solo per controllare le operazioni di calo; in una delle camere centrali, l’ordinaro, trovai otto pesci enormi, duecento chili l’uno circa, come fossero entrati è rimasto sempre un mistero, magari le reti erano state calate proprio sopra il branco. Mai accaduto prima. Risalii in barca, silenzioso, non risposi al rais che mi chiedeva come stessero le cose là sotto, mi feci passare una grossa scatola di latta, una battagliola di legno, e dalla muciara dove mi trovavo mi misi a suonare all’impazzata l’improvvisata campana. Sulle barche i tonnaroti si fermarono, il tempo tra le reti si fermò. Il rais mi guardò stupito. E mi misi a gridare come un invasato “Siamo anniscati, siamo anniscati, sono arrivati i tonni!”. La tonnara era innescata, quei tonni avrebbero richiamato gli altri, era iniziata la stagione della pesca. In quel momento il Rais mi cedette, sia pure per un attimo, lo scettro del comando, il mio sapere si era sovrapposto al suo, era mia e non sua la “conoscenza”. Nella luce abbagliante della mattina l’uomo del mare ero diventato io. Rais Mommo Solina non se n’ebbe, mi guardò con i suoi occhi intelligenti e buoni, mi pose una mano sulla spalla, “bravo dottore”, poi rivolto alla ciurma promise “e stasera birra per tutti!”. Dalle barche si levò un “Evviva” e tutti si misero a gridare per la gioia e a battere le mani. “Se nasco un’altra volta – mi disse il rais – voglio fare il sommozzatore, voglio vedere anch’io quello che vede lei”. Ero l’unico in tonnara a cui dava del “lei”, e non importa se quella volta mi ero sostituito a lui stravolgendo una tradizione millenaria. Ero i suoi occhi.

NOTE

Le testimonianze di rais e tonnaroti riportate si trovano in: Ravazza Ninni, Il sale e il sangue, Magenes, Milano, 2007

Una versione più ampia e completa di questo articolo, con la bibliografia, si trova in “Dialoghi Mediterranei” (rivista on line) del giugno 2013

 

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