Trapani nei racconti di grandi scrittori

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“Un porto sulla costa nord occidentale della Sicilia”: questa è la secca definizione di Trapani nel “Collins English Dictionary”. Trovare una città così defilata in racconti o romanzi contemporanei non è facilissimo; però, le poche volte in cui ciò avviene, ci potete scommettere che quasi sempre c’è di mezzo il mare.

Leonardo Sciascia è autore di una delle citazioni più asciutte e curiose della città. Ne ” Gli zii di Sicilia” (1958 ) presenta un racconto, “L’antimonio” , in cui un minatore, arruolatosi per disperazione e fame fra i legionari fascisti che combattono in Spagna accanto ai falangisti di Francisco Franco, ricorda: “Era bella Càdiz, somigliava a Trapani, ma per il bianco delle case più luminosa”. Ben più ricca ed articolata è la descrizione di Sergio Marano, un trapanese che vive da lunghi anni a Castelfranco Veneto. Sta in Le Trottole di legno (Santi Quaranta, Treviso, 2001) e vale la pena di riportarla per intero: “Bella, la primavera a Trapani.

Il mare spruzzava la sua luce nelle strade, accendeva d’oro pallido i marciapiedi, le facciate delle case, i viali alberati, la cullava nel ritmo della risacca con voce amica rassicurante. Ma l’autunno scivolava a tradimento sulle spalle della città, vi stendeva un mantello stillante di pioggia, un odore tenero di terra umida e smossa, di aria salmastra. L’impasto, copriva di una patina cretosa case alberi uomini. E il canto del mare da sommesso si faceva roco, rabbrividente.

 

Allora Trapani innalzava l’alberatura con i fiocchi e controfiocchi, schioccava, fischiava, saltava nel vento e sembrava ad ogni ora voler salpare. Luccicava l’asfalto delle strade come ponte di nave e in periferia, dov’era più buio, rifletteva calmo il brillìo delle stelle. Di mare era fatta Trapani, persino i muri delle case fiorivano di salsedine, di salnitro vaporoso e un pizzico che ne assaggiavi ti scioglieva in bocca il sapore del mare. D’inverno era miracolo che non disancorasse nell’assalto delle onde e non venisse sbattuta al largo, di questo sembrava incollerire il mare perché avveniva spesso che da ponente e da levante sommergesse la città in un bagno rabbioso di spume. Ma c’era Erice che teneva arroccata Trapani e non mollava la presa dai tempi dei Fenici, dai tempi dei Greci, la bella Erice che s’innalzava con grazia sempre nuova nel cielo, dove l’aria si fa cristallo, e vi aveva posto a dimora Venere genitrice. Questo destino di mare Carlo lo portava dentro e ora ne riudiva la voce come in una conchiglia, una voce cupa, triste. Una voce entrata nel suo sangue e che ha filtrato a goccia a goccia tutto il suo sale, un sale di milioni di anni, l’amarezza di milioni di anni.

 

Risente allora la voce del salinaio che con un carrettino spinto a mano passava di strada in strada cantando e poggiando tutta la sua anima triste sull’a: “U saaale!”; un vecchiettino sdentato, tutto liscio, quasi fosse uscito da una salamoia. Era questo destino di mare che faceva degli abitanti dei marinai senza approdo; navigavano da millenni senza mai soste e non c’era porto per loro. Si sentivano provvisori su questo ponte di nave battuto dalle onde e vi correvano in su e giù e ora da dritta, ora da sinistra, ora da prua lanciavano rapidi sguardi all’orizzonte quasi a sperarvi l’apparizione di una terra promessa. Forse per questo la città era fuggita dal mare e ora si accampava, si diramava nelle saline che interrava, s’arrampicava attorno alle falde di Erice quasi volesse sollevarsi verso l’alto. Perfino Raganzili, un tempo pascolo per capre e scrigno per l’oro delle spighe o campo verdeggiante di fave e rosseggiante di sulla, ora ha conosciuto le case degli uomini e sotto l’ammasso di cemento è sparita, cancellata dal grembo materno. Raganzili, terrazza aperta sul mare, dove da ragazzi venivano ad affacciarsi come dalla coffa di un brigantino: il vento li investiva d’ogni lato, gli scompigliava i capelli, gli gonfiava addosso i camiciotti e nelle narici gli metteva il profumo dei pini e delle alghe marine, negli occhi il bruciore della salsedine, negli orecchi uno schiocco di vele. Da lassù ecco Trapani navigare veloce, aprirsi tra baffi di schiuma la rotta verso le Egadi: Favignana, Levanzo, Marettimo.

 

L’illusione è perfetta: le tre sorelle emergono da un velo di nebbie, si intagliano nel fresco d’un cielo blu, ingrandiscono, avanzano. Ma rapidamente com’erano emerse, le tre sorelle riaffondano nella nebbia, rimpiccioliscono, s’allontanano, svaniscono. Un miraggio, che dura da mille anni. E Trapani continua a navigare con la Torre di Ligny a far da polena verso occidente e non cambia mai rotta. Ma d’estate tutto cambiava. Il cielo splendeva di azzurro e di sole. La navigazione procedeva allora tranquilla in un mare perpetuamente calmo, salvo a incresparsi al soffio dello scirocco o di maestrale. Le Egadi facevano da scorta e pareva di navigare una fetta di oceano. E la gente si concedeva lieta alla contemplazione lungo le murate.”

 

Sempre Sergio Marano, in Il bosco di Rinaldo (Santi Quaranta, Treviso, 1993) ci dona una particolare percezione della città da uno dei luoghi più misteriosi e inaccessibili: si tratta delle vecchie carceri, da tempo dismesse, di via San Francesco: “un vecchissimo edificio borbonico con quattro gigantesche cariatidi egizie a sormontare il portone di ferro”. Dalle celle poste all’ultimo piano dell’edificio: “Guardavamo passeri, colombi, gatti. E sui terrazzi sventolare la biancheria. Dai quattro cantoni del cielo il vento la faceva danzare e dal ritmo indovinavamo il musico: ora il tramontano (tesa allo spasimo la biancheria strappava le corde con scoppiettii come in una danza andalusa o messicana), ora libeccio (la danza si faceva languidamente molle), ora scirocco (la biancheria s’asciugava di colpo in una tarantella di piroette e avvolgimenti folli), ora il ponentino (il passo si faceva voluttuoso con cadute e sospensioni estatiche come in un valzer lento)”.

Marano aveva già fatto conoscere la sua abilità nel descrivere i venti del trapanese nel suo bel libro d’esordio, l’imperdibile Pietrarsa (L’autore Libri, Firenze, 1989). Tornando al carcere di via San Francesco, a Natale: “Dall’inferriata entra il vento pungente di dicembre. Ne aspiro grosse sorsate, c’è dentro il salmastro del mare. Sento le ondate consumarsi sui moli del porto vicino. Piove. Sugli embrici dei cumuli di sale, là nelle saline, la pioggia a quest’ora batte, s’infiltra, si scioglie in pozze salate. Tutta la città è una spugna di sale.”

 

C’è molta Trapani anche nel romanzo Retablo (1987) di Vincenzo Consolo, ambientato alla fine del 1700. Si tratta di un itinerario denso ed avventuroso attraverso diversi “punti cospicui” (Alcamo, Segesta, Vita, Salemi, Mokarta, Selinunte, Mozia, Trapani) posti all’estremo Occidente della Sicilia.

Sin dall’approdo nella città, presentata con vertiginose enumerazioni di luoghi, vascelli e merci, si capisce che si ha da fare con un luogo con una fisionomia tutta sua, di un fascino che alla fine si rivelerà inquietante: “Così allora, ripuntando la prora verso terra, passata l’isola della Colombara sulla manca, la distesa infinita di saline sulla dritta, a quadri cilestrini e rilucenti come lastre di cristallo, entrammo nel porto di quella città bianca, di marmore e di sale, di mura e bastioni, di torri e di molini, di cupole, di specole e pinnacoli, che al pari d’una palomba bianchissima, dalle radici dell’Erice impennato lunga si stende librandosi sul mare. In quel porto, ch’è porta importantissima d’ogni incrocio e scambio, d’ogni più vario mondo, d’ogni città di traffico e commercio d’infra e fuori Regno, del settentrione e del meridione, del levante e del ponente, d’ogni isola, costa o continente: di Cipro, Rodi, Candia, Malta e di Pantelleria, d’Amalfi, Procida, Livorno, Lucca, Pisa, Genoa e Milano, di Venezia e di Ragusa, di Barcellona, Malaga, Cadice, Minorca … Vascelli, brigantini, galeoni, feluche, palmette, sciabecchi, polacche, fregate, corvette, tartane caricavano e scaricavano, nel traffico, nel chiasso, nell’allegria della banchina, le merci più disparate: sale per primo, e in magna quantitate, quindi tonno in barile, di quello rinomato di Formica, Favognana, Scopello e Bonagìa, e asciuttame, vino, cenere di soda, pasta di regolizia, sommacco, pelli, solfo, tufi, marmi, scope, giummara, formaggi, intrita dolce e amara, oli, olive, carrube, agli, cannamele, seta cruda, cotone, cannavo, lino alessandrino, lana barbarisca, raso di Firenze, carmiscina, orbaci, panno di Spagna, scotto di Fiandra, tela Olona, saja di Bologna, basettone d’Inghilterra, velluto, flanella, còiri tunisini, legnami, tabacco in foglie, rapè, cera rustica, corallo, vetro veneziano, mursia, carta bianca … Queste letàne me le cantò orgoglioso un trapanese, consolo del Corpo dei Naviganti, patrone di vascelli, don Sciaverio Bugio, il quale, vistici disbarcare dal paranzello, me e Isidoro, pallidi e smarriti, mosso forse da compassione, si fe’ incontro, e saputo ancora ch’io provenivo d’una nazione per cui egli importava ed esportava merci, si proclamò all’istante nostro protettore ed ausilio”. Dopo aver portato gli ospiti a casa sua ed aver offerto loro sorbetti di gelsomino, don Sciaverio conduce don Fabrizio ed Isidoro in giro per la città: “Traversammo così quel rione intricato come un labirinto, pieno di bei palazzi, di chiese, di reclusori, di conventi, di spezierie, di mercerie, di logge, botteghelle; traversammo la Giudecca con l’antico palazzo e con la torre a bugne, col gran palazzo della famiglia Emmanuele; la Gurca, il Cortigliazzo. Tutti, per le strade, salutavano don Sciaverio con rispetto. – Vedete queste case a forma di pignatte pel cùscus? – disse la guida nostra nella contrada del Catito indicando le case strette ed alte, a uno, a due, a tre piani, quasi sempre incompiute e in progresso – Sono quelle de’ nostri naviganti (navigano anche sopra i miei vascelli), òmini accorti che sparàgnano il salario degli imbarchi e fabbricano a mano a mano la casa pe’ i figli, un piano sopra l’altro, come le pignatte sovrapposte per cuocere al vapore il semolino. S’indovinava in don Sciaverio una grande stima per la dignità e la costanza di quei marinari trapanesi. Per la strada badiella e per la Cuba arrivammo nella strada de’ Corallari che, in una con l’altra de’ Cordari, taglia in traverso quella città penisolare, […] nelle cui secche, a poche miglia, nell’acque di Santa Croce e Bonagìa, era il maggior coltivo di corallo. Com’era anche nell’acque più distanti delle Egadi. Ma ràis e pescatori trapanesi del corallo s’avventuravano coi liuti e con gli ordigni, sfidando le galee barbaresche, fino all’acque di Lipari, d’Alghero, fino a quelle lontane di Tabarka o antistanti la patria di Didone l’infelice, la Cartagine distrutta dai Romani. Erano per questa strada, come dice il nome, innumeri botteghelle con le vetrate de’ coralli, fabbricati con l’arte più finita e più fantastica da’ maestri scoltori di quel ramo e dai loro lavoranti. […] E credo che proprio in questa bella Trapani, agile e sciroccosa, attiva e sensuale, in cui s’incrociano a la perfezione la grazia greca, quella per capirci delle chiare sacerdotesse ed etère della Venere Ericina, con la carnalità ubertosa e ambrata d’un hàrem saracino, potea fiorire quest’arte della pesca e della lavorazione del corallo.”

Il soggiorno nella città falcata viene interrotto da un’improvvisa scossa di terremoto. Al che don Sciaverio suggerisce ai due visitatori di abbandonare la città al più presto, imbarcandosi su una sua nave, che avrebbe salpato di lì a poco per Palermo. Consolo termina così, con alcune righe di grande intensità, il lungo capitolo dedicato a Trapani in Retablo: “All’alba incerta, scialba delle foschie d’un’afa che ristagna, da su la nave, alla murata, vìdimo che si svolgea, sulla cadenza lenta d’un tocco di campana, sommessamente mormorante paternostri, avemarie, sotto le mura, fora del forte san Francesco, porta d’Ossuna e porta vecchia, lungo il piano della Gran Guardia, una processione. […] Avean scatenato i carcerati della Colombara, mi disse il capitano, raccolti i mendichi avanti al Santuario, vuotati il Lazzaretto, gli ospizi, il Reclusorio delle Repentite, le strade, le case più misere e pericolanti … mai vid’io insieme tanto orrore, tanto strazio. L’altra faccia, il rovescio o forse la verità più chiara e netta di questa nostra vita. Che nascondiamo ognora con l’illusione, i velami, gli oblii, le facciate come quelle teatrali de la rua Nuova e della Grande, ch’io avea visto e ammirato la sera avanti, della gente lussuosa, spensierata che là vi dimorava. Quando fu l’ora, suonò la brogna, si tiraro le gòmene, le ancore, s’uscì dal porto, si passò tra la punta di Ligny e il Malconsiglio. Veleggiando verso Pizzolungo, il Cofano, il capo di San Vito, vidi confondersi col mare, col cielo, quella sottile, fragile penisola, quella città sospesa.”

Nino Rallo

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