Mazara città senza mercato
Laddove il fiume si allarga e scorre pigramente tra i canneti delle sponde l’acqua dolce comincia a mescolarsi con quella salmastra offrendosi al Mediterraneo. Qui il Mazaro descrive un’ultima dolce ansa prima di perdersi nel mare, il fiume diventa porto, il canale portocanale. La linea che separa il fiume dalla costa, la terraferma dal mare è incerta e precaria, come tutti i confini disegnati sull’acqua. Le pietre, le bitte, le funi: ogni cosa del molo appare smaterializzata, logorata, consumata dal sale e levigata dalle mani dell’uomo. Lo stesso profilo delle banchine sembra confondersi con quello delle barche attraccate. “La città – ha scritto Matvejevic – restituisce al porto un po’ di quel che ne ha ricevuto per poter essere qualcosa di più di quanto sarebbe senza di esso”. Mazara è città che il mare non si limita a bagnare ma vi penetra fin dentro il cuore attraverso le antiche e anguste vie del suo portocanale. E’ come se le acque, le onde, le correnti volessero scorrere nelle vene dell’abitato, nelle fibre più segrete del tessuto urbano.
Ci sono città fondate lungo le coste che hanno sempre voltato le spalle al mare, restando in tutta la loro storia saldamente radicate nella terraferma e sostanzialmente estranee all’orizzonte marittimo. Mazara è città che, nata sulla riva sinistra del fiume a cui deve il suo nome, ha dischiuso in ogni tempo le sue porte al mare, ricevendo e accogliendo uomini e cose da ogni angolo del Mediterraneo e trasformando il suo porto in luogo d’incontro e di comunicazione tra i popoli, emporio e deposito di tutti gli odori e i sapori di quel Canale che noi chiamiamo di Sicilia e che dall’altra sponda chiamano di Tunisi.
Sul lastricato perennemente bagnato dell’angiporto si muove da sempre un formicolio di uomini che s’incontrano, di pescatori che si offrono all’imbarco, un indescrivibile traffico di parole prima che di merci, una intricata congerie di bancarelle, di voci, di mimi e di suoni, un groviglio inestricabile, un disordine greve. Il mercato delle braccia si mescola con quello dei prodotti. Su questo proscenio tutto è mercato, ovvero il mercato è ovunque e in nessun luogo. Erratico e diffuso è il suo territorio, lo spazio deputato allo scambio, alle relazioni faccia a faccia, all’affascinante ed estenuante teatro delle contrattazioni, al gioco infinito dei debiti e dei crediti lasciati aperti. Se è vero che “sono le persone a fare un mercato e non le merci” (Aimè, 2002), i luoghi sono tuttavia consustanziali all’incontro tra l’offerta e la domanda, alle pratiche dello scambio, alle dinamiche sociali che ordiscono la trama e i circuiti commerciali. LA “MARINA”
Luogo di elezione della socialità, il mercato è un delicato punto d’intersezione di pubblico e privato, centro naturale della vita economica ma più ampiamente anche della comunità locale, della società civile, punto di riferimento spaziale nel contesto urbano. Come ha scritto Braudel, “Ogni realtà sociale è, per prima cosa, spazio”. In quanto tale, il mercato del pesce di Mazara si identifica con le pietre umide del molo, gli scali del portocanale, i piccoli slarghi che secondano le banchine. Non può essere altrove, se non dentro quello spazio da tutti indicato come la Marina, spazio per antonomasia aperto all’accesso di tutti, alle molteplici negoziazioni e a tutte le transazioni possibili. Eppure delimitato da confini impercettibili, da soglie invisibili, da margini immateriali. “Andare alla marina”, nel linguaggio della gente del luogo, significa entrare all’interno di un preciso perimetro, di un territorio ben identificabile, di un’area per certi aspetti franca: poco meno di tremila metri quadrati, segnati da determinati tratti della sponda sinistra del fiume, quelli da sempre destinati agli approdi e alle partenze, agli sbarchi e agli imbarchi, agli ormeggi e a tutte quelle minute e laboriose operazioni che precedono e seguono la pesca. La Marina è il mercato e il mercato è la Marina: in questa sorta di chiasmo linguistico sta probabilmente il senso comune che di quella piazza, di quel molo, di quel segmento di lungofiume ritengono i mazaresi. I luoghi così connotati hanno, dunque, un inizio e una fine, un’identità storicamente riconosciuta e socialmente riconoscibile.
Che tra spazio e mercato esista un tenace e irriducibile legame è confermato dal fatto che ogni tentativo di trasferimento o di rimozione è stato occasione di conflitti e di contrasti sociali. Tanto nevralgica quanto delicata è sempre stata la collocazione fisica del mercato, la sua localizzazione storica. Per quanto esile o effimera possa essere la struttura materiale, resta fondamentale la sua posizione strategica, la sua centralità rispetto all’area con cui interagisce. Posta all’incrocio di un fitto sistema di funzioni e di relazioni, la pescheria di Mazara è stata vera e propria agorà, fino a quando è rimasta nella piccola piazza dello “scaro”, a pochi metri dal mercato all’ingrosso e dai punti di attracco delle imbarcazioni. Appena sufficiente per accogliere le bancarelle sotto semplici tettoie in legno, questo spazio, aperto e trasparente e tuttavia raccolto come in una nicchia protettiva, sembrava naturalmente disegnato per interpretare, in modi quanto mai essenziali ed efficaci, il ruolo di mediazione tra produzione e consumo, tra economia e società.
Quanto fosse essenziale ed efficace quel mercato del pesce al minuto, incastonato in quel preciso punto del portocanale, lo si capisce soprattutto oggi che è stato spostato sulla sponda opposta del fiume, appena fuori di quell’immaginario confine che delimita la cosiddetta Marina. Non la distanza fisica, davvero trascurabile e insignificante, rispetto al “centro” di gravità di tutte le attività del porto quanto la fuoriuscita, seppure minima, dai margini di quel perimetro sembra aver contribuito a determinare la crisi in cui attualmente versano gli esercizi di vendita al dettaglio. Da qui la rabbiosa protesta degli operatori che lamentano un considerevole calo di presenze degli acquirenti e una corrispondente perdita dei proventi. Essi stessi attribuiscono al trasferimento in questo nuovo sito la causa principale dell’insuccesso commerciale. Ancora una volta, il mercato dimostra di essere un luogo non meramente economico, un “fatto sociale totale”, un istituto particolarmente sensibile alle tensioni sociali, un nervo scoperto della comunità, proprio in quanto struttura in cui si sono tradizionalmente manifestate condotte di resistenza e di insofferenza nei confronti del controllo operato dallo Stato.
E’ noto, d’altra parte, che nel settore ittico il mercato è sempre stato punto critico di snodo degli attriti e dei conflitti che oggettivamente si innescano tra pescatori e commercianti: i primi sono, in tutta evidenza, nel rapporto contrattuale in posizione subalterna rispetto ai secondi, avendo bisogno di assicurarsi l’immediata commercializzazione di un prodotto rapidamente deperibile. L’egemonia esercitata dai grossisti ha dato vita a forme di gestione autonoma, se non a veri e propri monopoli. Complessivamente scarso è stato, ieri come oggi, l’intervento di vigilanza pubblica sull’economia reale così da offrire largo spazio a quella informale la cui diffusione è stata, in molti casi, favorita e incoraggiata. La stessa disciplina dei mercati ittici, formalmente codificata da norme e regolamenti, ha lasciato non pochi margini di incertezza, sia sul piano dell’interpretazione che su quello dell’applicazione. Inerzie e contraddizioni, persistenze e inefficienze hanno accompagnato un po’ dappertutto l’evoluzione e la trasformazione nel tempo di questi impianti commerciali. Nella fenomenologia dei mercati del pesce si rende probabilmente più visibile e comprensibile quel processo evidenziato da Braudel, per il quale: “Non vi è una storia semplice e lineare dello sviluppo dei mercati: in questo campo il tradizionale, l’arcaico, il moderno, il modernissimo si affiancano. Ancora oggi”.
A determinare i cambiamenti strutturali più recenti sono state le preminenti esigenze igienico-sanitarie, le garanzie di tutela da offrire ai consumatori, le limitazioni imposte dalle nuove normative dell’Unione Europea, nonché gli effetti più generali prodotti dalla globalizzazione dei mercati. A provocare il trasferimento della vecchia pescheria comunale di Mazara da piazzetta dello Scalo con i banchi all’aperto alla nuova struttura al coperto, edificata al di là del Mazaro, è stata, pertanto, la necessità di adeguare locali e organizzazione del lavoro alle disposizioni legislative nazionali e comunitarie. La crisi della vendita al dettaglio è riconducibile principalmente a questa nuova dislocazione dell’attività, decisa dall’amministrazione comunale senza il consenso degli stessi operatori commerciali e risultata non gradita dalla gran parte della popolazione locale. Ci sono indubbiamente altri fattori causali che concorrono a spiegare il calo negli acquisti del pesce presso l’impianto comunale: il moltiplicarsi degli esercizi privati fuori della Marina; la diffusione generalizzata dei punti spontanei di vendita già effettuata al molo, appena dopo lo sbarco, ai bordi della stessa imbarcazione, attorno a qualche cassetta di cernie o di polipi; le metamorfosi dello stesso mercato ittico all’ingrosso che, per gravi disfunzioni strutturali, rischia oggi paradossalmente di sostituire quello al minuto. Le ragioni tecniche o puramente economiche non sembrano, tuttavia, sufficienti a chiarire la scarsa fortuna della nuova pescheria, sicuramente più pulita e ammodernata, meglio protetta dalla pioggia e dal freddo, sufficientemente spaziosa e ordinata, ben illuminata e rivestita nelle superfici da bianche mattonelle in ceramica. Nell’aspetto e nelle caratteristiche funzionali essa non appare, pertanto, affatto dissimile da qualsiasi altra pescheria della città, avendo perduto proprio le sue connotazioni distintive, la riconoscibilità delle sue peculiarità, la sua stessa identità di mercato storico.
Tra le motivazioni di segno culturale che soccorrono nella comprensione del fenomeno, si consideri il peso non trascurabile dell’evoluzione dei gusti alimentari, la massiccia e crescente tendenza al consumo del pesce congelato, la preferenza per il prodotto confezionato dalle industrie di trasformazione, per il pesce privo di lisca, “sfigghiatu e bonu” come ci ha detto un anziano pescatore. Ma si tenga conto anche delle conseguenze derivanti dall’omologazione dei mercati, dai processi in continuo aumento di spersonalizzazione nei rapporti tra acquirenti e venditori, dalle profonde mutazioni intervenute nel sistema dell’offerta, della commercializzazione e della distribuzione. L’indistinzione del mercato ittico al dettaglio rispetto ai molteplici punti di vendita disseminati nei vari quartieri urbani sembra aver cancellato ogni elemento di specifico interesse per quanto era tradizionalmente associato alla Marina e al suo spazio sociale. Fisicamente espulsa da quell’area e formalmente assimilata a semplice e anonima bottega, la pescheria è diventato un luogo privo di quella densità comunicativa e di quelle pratiche di socialità che identificavano il vecchio mercato della piazzetta dello Scalo.
Nella dimensione popolare e tradizionale un mercato è prima di tutto un’occasione, un’esperienza umana, una partecipazione dei sensi. Si frequenta anche se non si ha nulla da comprare. Lo si attraversa per immersione, non lo si visita in punta di piedi. E’ un modo per incontrare gente, per scambiare parole prima ancora che per concludere affari. Qui, a differenza che al supermercato, acquirente e venditore devono conoscersi e piacersi. Tra le bancarelle il tempo si piega docilmente al sottile gioco delle simulazioni e delle contrattazioni, al consueto contrappunto dei battibecchi e delle apparenti rinunce, prima di arrivare ai provvisori compromessi e agli ultimativi armistizi sul prezzo. Non ci può essere mercato senza odori e senza voci, senza l’umanità dei gesti e delle grida dei venditori, senza la ritualità delle sequenze mimiche e dei marcati codici sonori.
UNO SPAZIO MASCHILE
La pescheria di piazzetta dello Scalo era davvero “il mercato”, centro di convergenza e di irradiazione di tutte le attività della Marina, convegno e appuntamento quotidiano dei venditori, almeno una dozzina, impegnati nella doppia sfida con gli avventori e con i colleghi concorrenti, spettacolo per i turisti in cerca di curiosità e suggestioni, ma anche vita vera di quanti mettevano in scena ogni giorno insieme alle scaltrite tecniche dell’imbonitore qualcosa di se stessi, i loro corpi, le loro facce, i loro nomi. “La Scogliera” era il soprannome con il quale era identificato un abile pescivendolo che usava abbanniari vantando la qualità delle sue triglie di scoglio.
Maestri nell’arte della cosiddetta “chiacchiera”, finalizzata a richiamare o a intrattenere l’attenzione dei clienti, i venditori sono esperti nell’impiego di espressioni formulari o convenzionali e nel ricorso a procedimenti retorici quali l’enumerazione e l’iperbole. Nel sottolineare la particolare convenienza dell’acquisto si accompagnano le grida con una gestualità ridondante che ha una preminente funzione dimostrativa della freschezza del prodotto: il pesce toccato o manipolato sembra guizzare e, rianimato da mirati e frequenti getti d’acqua, pare agitare la coda, muovere le branchie palpitanti. Nell’articolazione dei messaggi pubblicitari, il venditore suole spesso conferire a ciascun pesce uno statuto antropomorfico, una identità di creatura umana. Senza insegne e sovente privi dell’indicazione dei prezzi, i banchi di vendita si offrono agli occhi dei clienti nella loro nuda geometria, piani leggermente inclinati e grondanti su cui spiccano le cassette di gamberi appena sgusciati, le triglie rosse tra le alghe verdastre, orate e sogliole con gli occhi ancora vivi in mezzo al ghiaccio triturato, i saraghi e i totani iridescenti, le trance del pesce spada ai piedi dell’imponente testa esposta come un trofeo.
A comprare come a vendere il pesce al minuto erano, tuttavia, e sono ancora oggi soltanto gli uomini: pescivendoli sono figli di marittimi o quanti per tradizione familiare hanno ereditato il mestiere. Un tempo erano gli stessi pescatori di sardelle che durante la stagione invernale, impraticabile per la pesca, si trasformavano in rigattieri. La Marina, dunque, e con essa il mercato, è spazio socialmente connotato e eminentemente dominato dalla presenza maschile, dagli uomini che vi lavorano (commercianti, artigiani, magazzinieri, operai), dai pescatori che appena sbarcati si ritrovano sul molo già in attesa di ripartire, dai marittimi pensionati che amano rimanere in contatto con il vecchio portocanale e con il mare, da quanti infine vi si avvicinano per comprare del pesce o semplicemente per curiosità, per passione, per il piacere di assistere all’attracco di un’imbarcazione, a quel rapidissimo via vai di cassette di gamberi o di seppie che passate di mano in mano sono allineate a terra prima di essere caricate sui camion frigoriferi o trasferite altrove.
Paradossalmente la visibilità del pescato a Mazara, prima Marina peschereccia del Mediterraneo, è proprio quasi tutta qui: nel brevissimo momento in cui transita dal peschereccio al mezzo che lo trasporta a destinazione, dalla buia stiva della nave al buio freezer del camion. Per la stragrande parte dei natanti che compongono la flotta locale d’altura queste operazioni sono svolte di notte e, sempre più spesso, addirittura sul molo di Porto Empedocle, laddove il pescato è fatto pervenire attraverso l’apposito traghetto che collega il centro agrigentino con Lampedusa. Qui fanno scalo i pescherecci mazaresi che operano il trasbordo per proseguire la pesca al largo del Canale. Accade pertanto che il grosso del pescato arrivi nel porto di Mazara non dal mare ma per via terra, trasportato dai camionisti. Questo stesso carico non passa materialmente per il mercato locale, sfugge in larga parte ai controlli fiscali e burocratici, è smistato e venduto ancor prima di essere sbarcato.
Nell’assenza di regole trasparenti e di pubblici controlli, anche statistici, oggi può perfino accadere che il reale reddito ricavato dalla commercializzazione del pescato sia sottratto alla conoscenza degli stessi produttori, essendo la vendita effettuata dall’armatore a mezzo radio e via telematica quando ancora il natante è in navigazione. Il 90% dei prodotti ittici è, dunque, direttamente trasferito nei più lontani centri di consumo senza che si sia operata preliminarmente una vera e propria contrattazione a terra. Tutta la partita di pesce è, in pratica, venduta dall’armatore al grossista col quale ha stabilito preventivi accordi informali, avendo, in alcuni casi, ricevuto anticipi o facilitazioni finanziarie, o essendo lo stesso incettatore comproprietario dell’imbarcazione. Destinato a pescherie e ristoranti italiani ed europei, e immesso perfino nei mercati ittici del centro-nord del nostro Paese per seguire l’iter della vendita all’incanto, il pescato dei natanti mazaresi resta davvero quasi del tutto invisibile alla popolazione locale. Solo una modestissima parte, meno del 10%, di quella complessiva è commercializzata a terra e venduta all’asta locale.
Che Mazara – per antonomasia terra di passaggi e di traffici commerciali – sia oggi priva di un mercato degno di questo nome è davvero paradossale se si pensa che Edrisi la descrisse come “splendida e superba” con i suoi “rigurgitanti mercati”, se si considera che il suo porto, prima di diventare prestigioso centro di pesca, fu fin dall’antichità notevole emporio del Mediterraneo, se si riflette, infine, sul ruolo che in questa città di mare e di frontiera hanno da sempre avuto gli scambi e la circolazione degli uomini e delle merci. Il paradosso assume i caratteri della beffa, nel quadro di un’economia mondiale che ritorna a celebrare il “dio mercato”, delocalizzando i processi produttivi e globalizzando i consumi.
L’AUTORE
Antonino Cusumano collabora con l’Istituto di Scienze antropologiche e geografiche della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo. Ha promosso e curato, negli anni 1976-78, la raccolta dei materiali facenti parte del Museo della vita e del lavoro contadino di Campobello di Mazara e dal 1980 al 1984 è stato direttore onorario del Museo etnoantropologico della Valle del Belice di Gibellina. Ha condotto ricerche su temi e aspetti della cultura materiale folklorica e sull’arte popolare in Sicilia. Attualmente è componente del Comitato di redazione dell’Archivio Antropologico Mediterraneo, rivista diretta da Antonino Buttitta. Ha pubblicato, tra gli altri, i volumi: Il ritorno infelice. I tunisini in Sicilia (1976); Le forme del lavoro. Mestieri tradizionali in Sicilia (1986); La terra e il fuoco. Ceramica popolare della Valle del Belice (1991); Pane e festa. Tradizioni in Sicilia (1991); Orditi e trame della natura. Sull’intrecciatura vegetale (1993), La strada maestra. Memoria di Gibellina (1997); Madre Pietra. Arte e tecnica del costruire a Salemi (1998). E’ autore di numerosi cataloghi di mostre, pubblicati a cura dell’Associazione per la conservazione delle Tradizioni Popolari di Palermo e del Servizio Museografico dell’Università di Palermo. Suoi contributi sono apparsi in varie riviste specializzate e nei volumi collettivi: Cultura materiale in Sicilia, Atti del I congresso internazionale di studi antropologici siciliani (1980); I Mestieri. Organizzazione, tecniche, linguaggi, Atti del II Congresso internazionale di studi antropologici siciliani (1984); I colori del sole (1986); Le feste di Pasqua in Sicilia (1990); Il pane (1992); Arte popolare in Sicilia (1992); Lo Zingaro. Un laboratorio di storia nella natura (1993). E’ attualmente impegnato, insieme a Rosario Lentini, nella cura e nel coordinamento di un volume su Mazara del Vallo tra Ottocento e Novecento.