Ritorno a Scherchi

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Ventisette anni dopo sono tornato al Banco Scherchi, la montagna delle meraviglie che dagli abissi del Canale di Sicilia si innalza fino a trenta centimetri dalla superficie del mare, e quando c’è bassa marea si affaccia all’aria con un fazzoletto effimero di terra che appare e scompare nel breve volgere di un giro di barca, come l’isola non trovata di gozzaniana memoria. Keit è il nome dato dalle carte nautiche a questo miraggio di approdo che dista settantacinque miglia dalla terra di Sicilia e quaranta dal Capo Bon di Tunisia, ma per i pescatori è semplicemente “u scogghio”, un’insidia mortale per i pescherecci che ci possono lasciare la carena e gli equipaggi la vita; il poeta Virgilio riteneva che qui emergessero dalle profondità due isolotti che romani e cartaginesi si spartivano da buoni vicini, e li chiamò Are.

In questo mare di mistero e di miti negli anni dal 1978 all’80 i sommozzatori pescarono quasi tutto il corallo rosso del Mediterraneo, su fondali che non conoscevano l’inquinamento né lo sfruttamento, regno di cernie, ricciole e squali, con le aragoste da tre chili che si contendevano ogni minimo pertugio nelle alte falesie sommerse che proteggevano pesci e coralli; qui avevo ricevuto il mio battesimo da “corallaro” quando ancora gli impegni di famiglia e di lavoro mi concedevano tanto tempo libero…

 

I cartaginesi sono tornati ad appropriarsi delle isole Are: per tutte le diciotto miglia del Banco non si vede un peschereccio italiano, troppo scarsa la pesca, ma solo scafi rattoppati con la pittura scrostata, dalla prua esageratamente slanciata in avanti e con la bandiera della Repubblica di Tunisia sulla crocetta in cima alla cabina. Cinque, dieci, venti, ovunque ti giri. Calano le reti che poi si scordano di tirare e restano a mare per settimane, a pescare pesci che poi a bordo saranno solo lische maleodoranti da gettare immediatamente via; a bordo sono in sei, sette, tanti, troppi per un “mestiere” che ne richiede la metà, ci sono anche bambini di otto, nove anni; si avvicinano alla nostra goletta “Moby Dick” tirata a lucido, salutano festosi, “ciao”, sorridono, il capitano lascia il timone e si affaccia alla murata con due aragostine ancora vive in mano, le accettiamo e sappiamo bene cosa può ricompensare l’equipaggio di quella piccola privazione. Una bottiglia di vino bianco ghiacciato passa da bordo a bordo, stentiamo a fargli credere che per noi ne resta solo un’altra, se no dovremo accompagnare la pasta con l’aragosta che già il capitano Raimondo si accinge a preparare con la più insapore delle acque minerali. Gli amici tunisini ridono e si allontanano facendo ciao ciao con la mano, e quando il peschereccio riprende a tirare le reti abbiamo il nostro da fare per scacciare le mosche e le vespe che nel frattempo si sono trasferite sulla nostra barca.

 

Il fondale che ci accoglie non è più quello di tanti anni fa: le aragoste sono sparite, che fine avranno fatto? una cernia enorme e nera mi spia guardinga, pronta a ritirarsi nei recessi di una grotta, un tempo sarebbe rimasta a giocare con le mie pinne assieme a decine di consorelle; poche mostelle accarezzano gli scogli con l’addome e spariscono quasi subito alla vista; delle ricciole e dei dentici che facevano i caroselli attorno alle bolle d’aria del sub non c’è traccia; le alte orlate che cadono a picco dai quaranta ai settanta metri che ricordavo rosse per i rami di Corallium rubrum sono spoglie e grigie, coperte da una coltre di alghe lattiginose; in decompressione attaccato all’ancora della barca cerco invano con lo sguardo le nuvole di boghe e castagnole che una volta riempivano l’acqua blu cobalto, il mare delle meraviglie è pieno di un vuoto spettrale.

In superficie mi aspetta un via vai che ha dell’incredibile; sfilano accanto alla polena dalle fattezze di drago della goletta i motoscafi dei sommozzatori spagnoli che da quattro mesi grattano le rocce dello Scherchi raccattando quel po’ di corallo rimasto – “Ola amigo … – e anche un elegante scafo d’altura con la camera di decompressione e le bombole da trenta litri attaccate alla murata, i sub si chiamano Alì e Omar e la barca gliel’ha affidata un commerciante di Torre del Greco che si comprerà il corallo se mai ne troveranno: ci offrono amicizia e un melone giallo della loro terra, e intanto si prendono le coordinate col Gps per venire a sommozzare qui quando ce ne saremo andati.

La notte è splendida, in attesa che la luna sorga milioni di stelle fanno la corte alla Puddara che da millenni indica il nord ai marinai, la Via Lattea attraversa l’aria cristallina, il Gran Carro galleggia nel buio più assoluto. Nelle città inquinate dalle luci questo spettacolo della natura è scomparso troppi anni fa. Consumiamo in silenzio la pasta con l’aragosta annaffiata dall’ultima bottiglia di vino bianco restata, spegniamo anche le luci di via per non perdere un solo attimo di questo splendore.

L’alba sul mare calmo come l’olio è di una bellezza indicibile; il sole si alza lento ad est, sulle barche dalla bandiera con la mezzaluna i bambini dormono ancora sopra le reti umide e strappate; dopo poco Mario è già sott’acqua, scorre l’orlo che affonda sulla sabbia a sessanta metri, quando risale mi chiede dove sono finiti i pesci enormi di cui aveva sentito favoleggiare quando ancora non era un sommozzatore professionista, lui non ha visto neppure quell’unico cernione che ho incontrato io.

 

E’ sabato mattina, il mare è una tavola, a levante appaiono minuscoli punticini velocissimi, in pochi minuti ci sfrecciano accanto, sono potenti gommoni che si divorano le settanta e passa miglia da Trapani in nemmeno tre ore, a bordo ci sono i sub del fine settimana alla ricerca di prede facili, loro non hanno dovuto stare per ore dietro alla bussola per trovare il Banco delle meraviglie, è bastato impostare il Gps e seguirne le indicazioni. Ne conto almeno sei a vista. Troppi, è come se accanto al “Pequod” di capitano Achab fossero comparsi all’improvviso i battelli dei turisti sul Tamigi. Antonio imposta il pilota automatico e “Moby Dick” sfila come una nave dipinta su un mare dipinto, rotta 90 gradi, il Banco Scherchi si allontana di poppa mentre i gommoni vagano di qua e di là alla ricerca di una preda che non c’è. Socchiudo gli occhi e ripenso a quando in questo mare da sogno anche i miracoli potevano diventare realtà trasformando i poveri pescatori in agiati commercianti di corallo. Quando arriviamo al porto di Trapani è quasi giorno, la Puddara sta tramontando e con essa i miei ricordi più belli.

Ninni Ravazza

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3 pensieri riguardo “Ritorno a Scherchi

  • 15 novembre 2013 in 17:00
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    Bellissimo articolo. Lo apprezzo in quanto siciliano e sub ricreativo che ha visto tanti mari.

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  • 15 dicembre 2013 in 15:06
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    All età di cinque anni mio padre mi portò con lui attaccato alla boa segnasub, infilai la testa sott’ acqua e da allora il mare per me è diventato una costante, una importante presenza, imponente e affascinante. Ho imparato tanto dal mare. Ho imparato la mia esizialità di fronte alla natura , i miei limiti, la stupidità di un atto incosciente e la superba follia di un atto eroico. Ho imparato tanto dal mare, ma su tutto ho imparato il rispetto per il mare stesso. A sette anni ho avuto il mio primo fucile subacqueo, un dorato fucile a molla che mi ha iniziato alla pesca sub… Anno dopo anno ho frequentato gli stessi fondali e crescendo ho visto deperire la flora e la fauna marina stressate e stuprate da incoscenti e devastanti atteggiamenti umani verso una risorsa, il mare , considerata ignorantemente come propria ed inesauribile. Scherchi era per me una sorta di mito, un a sorta di “shangrillà” del mediterraneo. Una quindicina d’anni fa un ricco signore con cui facevo battute di pesca , parti dalla puglia con alcuni amici, affittata a Trapani una grossa barca d’altura ancorarono a Scherchi. Al suo ritorno i racconti furono incredibili più di quelle enormi cernie che vedevo impresse nelle foto che mi scorreva davanti. Per anni ho invidiato quel signore ricordando quelle foto pensado a quelle bestie come a Mie potenziali prede… Da qualche anno ho sostituito il mio arbalete con una macchina fotografica e mi piace pensare le mie prede come un granello di speranza per i nostri mari. Rivedere scherchi in questo articolo non è stato bello come nei miei sogni ma ti ringrazio per l’ articolo e tutto quello che mi ha ricordato.

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  • 23 gennaio 2017 in 17:49
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    Il banco Scherchi, per me, è un luogo mitico dove non sono mai stato ma dove mi piacerebbe molto andare anche se è molto improbabile che ci possa riuscire. Il motivo di ciò è che nel 1961 ci fu il centenario dell’Unità d’Italia e la mia scuola organizzò una mostra facendosi prestare dei cimeli del Risorgimento dagli alunni. Io portai una carta d’Italia, stampata nel 1859, che era di un mio bisnonno che aveva combattuto con Garibaldi. Su questa carta, al largo delle Egadi, era segnata una misteriosa “isola Chirbi” sulla quale allora non trovai alcuna notizia.
    Solo molti anni dopo scoprii che si trattava del banco Scherchi e poi con Internet trovai dei portolani del XVIII secolo che usavano il nome “Chirbi”.

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