Dal corallo alla ricerca di se stessi

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Le città di Sciacca e Trapani hanno un importante denominatore comune: il Mare, da cui hanno attinto cultura, storia, economia, tradizioni.

Entrambe costituiscono importanti approdi per il naviglio da pesca, dispongono di flotte pescherecce tra le più produttive del Mediterraneo, sono famose per le loro industrie ittiche di trasformazione, che lavorano sott’olio (e un tempo sotto sale) sarde, sardelle, acciughe, sgombri, e tonno.

Ma ciò che ha più di tutto accomunato queste due splendide città è il più prezioso fiore del mare: il corallo.

Trapani e Sciacca sono ancora oggi famose in tutto il mondo per la pesca e la lavorazione del corallo rosso mediterraneo, il Corallium rubrum vagheggiato e desiderato in tutti i continenti, prezioso gioiello e talismano per assecondare la fortuna, medicinale panacea per tutti i mali e materiale proteiforme in grado di tenere lontano la sventura, tesoro nascosto sotto le onde sorvegliato dalle divinità marine e pianta dell’eterna giovinezza inseguita dall’uomo fin dagli albori della civiltà.

 Tante le analogie fra queste nostre città.

Negli anni dal 1875 al 1880 la scoperta di tre grandi banchi coralliferi al largo della punta San Marco di Sciacca, con l’arrivo di centinaia di barche coralline da tutto il Mediterraneo, apportò ricchezza e grandi mutamenti sociali nella città fino ad allora dedita prevalentemente alla pesca azzurra. La fama dei tesori estratti dal mare saccense si propagò in tutto il mondo, e in città fiorirono le attività commerciali e le botteghe artigianali di lavorazione del corallo; qui, nei mari del Canale di Sicilia, operarono anche le barche trapanesi, e Trapani fu il centro di raccolta e smistamento di buona parte di quel corallo, che per la sua particolarità prese il nome di “Sciacca”, che connotò così un tipo di corallo dalle non eccelse qualità per colore, dimensione e consistenza, ma che per la quantità di prodotto segnò un’epoca nella vita sociale, economica, artistica e culturale della città.

 

LA CORSA ALL’ORO ROSSO

Così a Trapani, cento anni dopo la scoperta dei banchi di Sciacca, nel 1978, scoppiò la corsa all’oro rosso di un altro banco corallifero che si dimostrò ricco e prodigo di sorprese: il banco Scherchi, circa 75 miglia a ponente della costa trapanese, in pieno Canale di Sicilia. Negli anni dal ’78 al 1980 Trapani diventò il centro pulsante dei moderni “corallini” che questa volta non erano più pescatori a bordo di “bilancelle” e “lautelli”, ma sommozzatori provenienti da tutto il Mediterraneo che trovarono imbarco sui motopescherecci, i cui comandanti reputarono più redditizio portare i sub ad immergersi in quelle acque lontane e selvagge, piuttosto che dedicarsi – come facevano da generazioni – allo strascico o alla pesca di circuizione.

Nel 1978 i subacquei che pescarono il corallo a Scherchi furono poco più di 80, imbarcati su 30 barche trapanesi: il corallo pescato ammontò a 140 quintali, per un valore di oltre 6 miliardi di lire: una ricchezza che in buona parte restò alla città, che ricevette una insperata boccata di ossigeno da quella economia inaspettata. Alberghi, ristoranti, cantieri nautici, negozi di attrezzature subacquee, conobbero un periodo felice come non mai.

Per avere un’idea della quantità di corallo pescato quell’anno a Scherchi e sbarcato a Trapani si pensi che i sommozzatori in tutto il Mediterraneo ne pescarono 280 quintali, mentre ammonta a globali 700 quintali il corallo pescato nel Mare nostrum da barche coralline e sub. A Trapani, dunque, nel 1978 venne sbarcato e commercializzato il 50 per cento del corallo dei subacquei, e il 20 per cento di tutto il prodotto pescato nel Mediterraneo.

Nel 1979 i sommozzatori che fecero base a Trapani furono 50 e il corallo pescato 65 quintali per un valore di 2 miliardi e mezzo di lire (nel frattempo il prezzo era sceso per l’abbondanza di materiale e anche per la sua qualità dimostratasi inferiore alle attese, passando dalle 410/470 mila lire al chilo del ’78, alle 340/370 mila del ’79). Comunque pur sempre un prezzo altissimo.

Ne 1980 i sub che lavorarono a Scherchi si ridussero ad una decina, e il corallo pescato ammontò ad 8 quintali. L’epopea del Banco corallifero di Scherchi si chiudeva, così come era finita, intorno al 1893/95 l’avventura sui Banchi di Sciacca.

Gli influssi positivi della pesca del corallo di Scherchi, però, a Trapani continuano ad essere sotto gli occhi di tutti: hanno riaperto diverse botteghe artigianali dove giovani appassionati sono tornati a lavorare il corallo, dopo averne appreso i segreti e la storia nei corsi professionali che presero il via con l’affluire di tanti rami preziosi; i marinai più bravi con la loro parte di guadagno acquistarono una barca tutta loro e divennero capitani; i capitani più temerari acquistarono nuovi motopescherecci e si trasformarono in piccoli armatori che davano le barche nuove in comando ad altri marinai; chi con il proprio peschereccio portava i sub sullo Scherchi cominciò a fare da intermediario con i grossi commercianti di corallo che venivano da Torre del Greco, e in breve divennero anche loro commercianti del corallo che non trattavano più per conto di terzi, ma acquistavano direttamente proponendosi quali commercianti/rivenditori. Le vecchie case tipiche dei pescatori, affacciate sul porto, vennero cambiate con nuovi appartamenti alla periferia della città; sulle banchine del porto cominciarono a transitare Mercedes e Bmw targate Trapani. Insomma, era nata una nuova classe sociale: non più solo pescatori, ma marinai/armatori/commercianti.

Oggi al banco Scherchi, su cui stazionano stabilmente decine di pescherecci nordafricani che hanno distrutto la fauna ittica una volta ricchissima, non si pesca più – o quasi – il corallo, ma Trapani non ha dimenticato quei rami rossi che per secoli ne hanno segnato l’economia e la cultura al pari del sale e del tonno, altri grandi protagonisti della storia della città: così accanto ai meravigliosi gioielli conservati al Museo Pepoli prosegue l’attività degli artigiani corallari, in grado di camminare nel solco dei grandi maestri del passato.

ALLA RICERCA DEL TESORO

Ho affrontato la questione “corallo” nell’ottica nuova del sommozzatore, una recente categoria professionale con particolari caratteristiche sociali e psicologiche.

Veniamo dunque al cuore del convegno di oggi: può l’immersione subacquea – che sta alla base della moderna ricerca del corallo – rientrare nelle attività valide per il recupero dei valori legalistici?

Io ritengo assolutamente di si.

Non sono un psicologo, e qui intervengo non come giornalista, o scrittore che ha dedicato studi e lavori alla cultura del mare, ma da subacqueo, quale sono dall’età di 4 anni, e di pescatore di corallo quale sono stato fino a non molto tempo addietro. Attingo dunque alle mie esperienze dirette, alle mie emozioni, seppure corroborate da approfonditi confronti con amici subacquei/psicologi con i quali ho verificato le mie idee ed ipotesi.

 

Innanzitutto una premessa: nella società marinara trapanese da tempo immemorabile non si registrano gravi fatti di sangue, violenze, soprusi. La mafia e la cultura mafiosa non appartengono a quel mondo. Pulsioni e aggressività vengono sublimate nella ricerca della supremazia nel mestiere: più pesce catturo, più posti nuovi di pesca riesco a trovare, e più dimostro di essere bravo e vincente: sono i risultati a sancire la mia vittoria, imposta non con la forza ma con la maestria. Identica cosa avviene nel mondo dei subacquei. I risultati sono inoppugnabili, sia che si tratti di pescare pesci, corallo, o di effettuare lavori in profondità. Il rispetto del gruppo sociale o professionale di appartenenza si conquista con i risultati, non con le minacce.

 

Una prima domanda da formulare è: perché si va sott’acqua?

Nella pratica dell’immersione prevalgono certamente alcune motivazioni fondamentali: innanzitutto il superamento di una barriera, del confine tra mondo aereo – il nostro – e quello fluido. Una sfida che è anche ribellione: alle leggi della natura che ci hanno assegnato al mondo aereo e ci hanno sottratto la capacità di vivere immersi in un liquido (quale può essere quello amniotico pre-vita di società); ribellione alle regole della creazione che hanno consegnato il mare ai pesci. La possibilità di agire in tre dimensioni, non più solo in lungo e largo, ma anche in senso alto/basso, ci permette inoltre di violare un tabù ancestrale: volare e vivere il mito di Icaro. Da qui il senso di libertà – e anche di potenza – che l’immersione regala a chi la pratica: anche questa è una sfida, e come Icaro il sub deve stare bene attento a non bruciarsi le ali e precipitare; nel suo caso deve tenere in conto le leggi della fisica che impongono precisi limiti all’immersione.

E non dimentichiamo poi il fattore forse principale: la sfida all’ignoto, la ricerca del tesoro – condizione primaria nella pesca del corallo, nelle ricognizioni archeologiche. Un tesoro immaginato, desiderato, per cui si può mettere in gioco la propria vita: spesso è più importante la ricerca in se stessa che la reale acquisizione dell’oggetto del desiderio: metafora della vita umana, l’inseguimento del tesoro sommerso può essere un viaggio iniziatici verso la conoscenza.

E’ il mito di Cola Pesce, l’uomo che abbandonò la sua condizione terrestre per inseguire i suoi sogni di sapienza e libertà fino all’ultima immersione, dalla quale non riemerse più.

Nel mondo fluido del mare, nella ricerca del tesoro, scompaiono le frustrazioni legate allo status fisico e culturale: anche chi non è fisicamente molto dotato – magari è troppo basso per essere un buon giocatore di calcio, troppo grasso per giocare a tennis, non è affascinante per interessare le donne – oppure non ha una cultura adeguata, può benissimo essere un ottimo subacqueo, stimato e invidiato. Oggi vanno sott’acqua tranquillamente anche portatori di handicap gravi come quelli visivi. Sotto la superficie del mare le disuguaglianze se non scompaiono, certamente si attenuano. E con esse le frustrazioni, i sensi di rivalsa.

L’IMMERSIONE COME (RI)SCOPERTA DI SE STESSI

Sono due le caratteristiche fondamentali dell’immersione, fino ad un certo punto antitetiche: la Solitudine e la Gruppalità. Entrambe presentano aspetti di estremo interesse ai fini del nostro studio.

La immersione in solitario è una caratteristica legata agli anni pionieristici della subacquea, ed oggi riservata ai pochi professionisti (pescatori, corallari) che in uno o più compagni di immersione troverebbero soltanto un ostacolo, una inutile perdita di tempo, un intralcio. Io da sempre mi immergo da solo (cosa addirittura vietata dalla moderna didattica), sia che cerchi corallo a 70/80 metri di profondità, sia che nuoti in mezzo ai tonni o ai pescispada nelle tonnare siciliane – di cui per oltre vent’anni sono stato il sommozzatore. In questa solitudine, che era anche e soprattutto consapevolezza delle mie capacità (anche di affrontare e risolvere gli eventuali problemi che si fossero presentati), ho sempre avuto ben presente che il mio benessere dipendeva esclusiamente da me stesso. La mia autostima è cresciuta immersione dopo immersione, mi ha reso un uomo sicuro e padrone delle mie azioni ed emozioni. Non ci sono nemici o avversari nell’immersione solitaria, ma solo una sfida alla natura, all’ambiente, a se stessi, in una esperienza di vita decentrata rispetto al quotidiano, ispirata alla scoperta e all’avventura – in definitiva alla conoscenza – dove la faciloneria e la superficialità sono fuori dall’etica dell’immersione perché cause quasi certe di incidente: il concetto di responsabilità individuale/personale diventa centrale.

Questa stessa solitudine, poi, non si è ripiegata su se stessa, ma è divenuta essa stessa tramite col mondo esterno nel momento in cui – completata l’immersione – mi sono rapportato con gli altri – fossero i miei compagni di lavoro che attendevano in barca il mio ritorno per immergersi a loro volta, o amici, o ancora un uditorio come questo – per narrare quello che era accaduto laggiù, quel che avevo fatto, per condividere con gli altri le emozioni vissute in fondo al mare. Peraltro, chi rischierebbe la vita nella ricerca profonda del corallo se non avesse coscienza di quanto i preziosi rami siano desiderati dai componenti della società, da cui lui pure si isola nel momento dell’immersione? Il sommozzatore esperto, profondista, spesso viene percepito come un eroe dal mondo “altro” dei non subacquei, o dei sub principianti, che si ritengono impossibilitati a vivere le sue avventure. Questo, ovviamente, lo gratifica e fa crescere ancora di più la percezione che ha di se stesso; per lo stesso motivo non ha bisogno di ulteriori prove per imporre la sua posizione di supremazia.

C’è poi la Gruppalità, la immersione di gruppo che è la regola della didattica attuale, fatta propria dalle scuole subacquee di tutto il mondo.

Scompare la figura del sommozzatore solitario, sostituita dal “gruppo”; l’immersione viene programmata nei minimi particolari, e il subacqueo avrà sempre un riferimento: il gruppo e il dive master, o nelle più recenti tecniche un compagno con il quale interagirà non solo per la singola immersione, ma per tutto il periodo del corso o della vacanza. L’attività subacquea viene codificata didatticamente con accezioni fortemente interpersonali. Emerge il concetto di gruppo”, affine a quello di “clan” o “branco”, ma qui il ruolo di questi ultimi è estremamente propositivo e positivo. Evidente è la valenza sociale del gruppo: al suo interno ciascuno ha il proprio ruolo, la finalità è di condividere esperienze ed emozioni (positive) comuni, forte è il senso di appartenenza, c’è il bisogno di individuare un leader a cui affidare la propria “iniziazione” in una esperienza di vita parallela (quella sottomarina), l’esigenza di stima e autostima comporta la ricerca e individuazione di parametri per valutare, o comunque collocare, il proprio comportamento all’interno di una scala il più possibile condivisa da tutti i membri del gruppo.

L’appartenenza al “gruppo” in generale può comportare rischi, poiché questo – essendo un contenitore di affetti – detiene una sorta di monopolio affettivo sugli individui che ne fanno parte ed esercita su di essi una pressione affettiva: ma in questo caso i valori del “gruppo” sono assolutamente positivi, e fra gli obiettivi educativo/formativi ottenibili mediante l’esperienza subacquea troviamo, per esempio: la capacità di stare in gruppo in maniera collaborativa, il senso di responsabilità verso se e gli altri, la capacità di condividere e confrontare esperienze positive, la capacità di rispettare regole e ruoli, la tolleranza delle frustrazioni, la capacità di autocontrollo.

Già la subacquea di gruppo è stata impiegata come strumento di intervento in iniziative di riabilitazione psico sociale, soprattutto nel campo delle patologie da dipendenza o con disturbi dell’adattamento psico-sociale: la esperienza e consapevolezza di far parte di un gruppo omogeneo per interessi e attività si sono dimostrate ottima occasione per la realizzazione non distruttiva dei propri desideri di differenziazione e ribellione.

Non è mio compito, né competenza, formulare suggerimenti, ma ritengo che accanto allo studio della storia, della cultura, delle tradizioni, delle tecniche artistiche, un avvio alla pratica della ricerca materiale dei tesori sommersi bene si inserirebbe in un progetto volto a rafforzare la coscienza e la consapevolezza del proprio ruolo da parte di ciascuno dei destinatari, nell’ottica di un recupero della legalità, qual è la finalità di questa iniziativa.

Ninni Ravazza

Bibliografia

Capodieci Salvatore, Sulle tracce di Colapesce: psicodinamica dell’immersione subacquea in Venza G. – Capodieci S. – Gargiulo M.L. – Lo Verso G., “Psicologia e psicodinamica dell’immersione subacquea”, Franco Angeli, Milano, 2006

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Ravazza Ninni, Corallari, Magenes, Milano, 2004

Venza G. e Mandalà M., L’esperienza subacquea come strumento educativo e di crescita personale per soggetti adolescenti in “Psicologia …” cit.

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