Signori del mare tra riti e commercio

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Una delle molle fondamentali che spinge gli antichi Greci sulle insicure vie del mare è senza dubbio quella del commerci, come dimostra il ritrovamento del relitto della nave mercantile di Capo Chelidonia. Nelle acque di Bes Adalar, di fronte appunto a Capo Chelidonia nella Turchia sud-occidentale, alcuni anni fa sono stati rinvenuti i resti di una nave da carico, risalente probabilmente al XIII sec. A.C.; pur non potendosi stabilire con certezza il luogo di provenienza (forse l’isola di Cipro), la nave appartiene senza dubbio all’area d’influenza della marineria greca arcaica.

Dello scafo rimangono pochissimi e non facilmente classificabili frammenti, che però lasciano supporre che il sistema costruttivo seguito sia stato quello della giuntatura mediante cucitura, cioè con corde che passano attraverso dei fori praticati nelle tavole da unire, sebbene al riguardo Giuseppe Puglisi nel suo studio “Nave chiodata, nave mediterranea ” sostiene che il relitto di Capo Chelidonia presenta inequivocabili fori per cavicchi di legno.

Comunque il ritrovamento fornisce notevoli indicazioni sul tipo di commercio che si svolgeva all’epoca nel bacino orientale del Mediterraneo. Infatti del carico si sono recuperati una quarantina di grossi pani di rame, ognuno oscillante tra i 15 e i 25 Kg. . Tutti sono contrassegnati da un marchio, che doveva evidentemente essere quello del fabbricante. Altro materiale recuperato si riferisce a mucchi di minerali di stagno bianco. Dunque la nave trasporta minerali strategici per quel tempo, rame e stagno, la cui lega dà il bronzo, con cui si costruiscono utensili da lavoro, ma soprattutto armi. E anche armi di bronzo già pronte trasportava la nave: scuri, doppie asce, spade, punte di lancia e di giavellotto. Il commercio delle armi, sempre redditizio, è dunque, come si vede, comune a tutte le epoche storiche.

Alcuni piccoli scarabei porta-fortuna, ritrovati nella parte riservata all’equipaggio, dimostrano che la credenza, presso i marinai, di oggetti scaramantici dalle proprietà salvifiche ha radici assai antiche. L’abitudine a commerciare i minerali perché altamente remunerativi è confermata inoltre da numerosi passi omerici. Come quelli riguardanti Atena, che assunte le somiglianze di Mente, signore dei Tafi abilissimi navigatori, racconta a Telemaco di voler veleggiare verso Temesa (forse Cipro) in cerca di bronzo, portando come scambio “ferro lucente”.

La nave è in quel tempo, sempre di proprietà di un armatore privato, tanto che Telemaco, pur essendo principe ereditario della casa regnante a Itaca è costretto, per il suo viaggio a Pilo, a chiedere in prestito a Noemone, figlio di Fronio, appunto una nave con venti rematori. Evidentemente il regno non possiede una propria flotta, che, per gli alti costi di manutenzione, è remunerativa solo se si esercita il commercio o raid navali che fruttano sostanziali bottini. D’altronde lo stesso Noemone usa la nave per piccoli e lucrosi commerci, tanto che, nel consegnarla a Telemaco, gli raccomanda di ritornare presto perché la stessa servirà a lui per andare nell’Elide e riportare in Itaca un mulo di buona razza.

Per grande o piccolo che sia, il commercio per mare ha sempre richiesto dei buoni approdi. Nei primi tempi dell’età arcaica, per i Greci la scelta del sito per un buon porto o approdo si riduce, per secoli, ad identificare un’insenatura ben riparata della costa, che offra delle larghe spiagge pianeggianti dove tirare in secco gli scafi delle navi, anche se la sosta ha poi la durata di una sola notte. Essenziale, nel sito prescelto, è la presenza di una fonte di acqua dolce. Quest’ultima condizione è sempre rispettata per i numerosi approdi citati nei versi dell’Odissea.

È la marineria fenicia la prima, già agli inizi del I millennio a.C., a sperimentare con successo per i suoi empori commerciali, sparsi nel Mediterraneo, la tecnica della costruzione di porti artificiali con moli, avamporti e bacini di carenaggio, a complemento sempre, s’intende, di favorevoli condizioni naturali della costa. Formidabile il sistema collegato dei tre porti della città fenicia di Sidone: esterno, interno ed egiziano. In tal modo è sempre possibile l’approdo delle navi in uno di essi qualunque tipo di vento flagelli in quel momento il quadrante di mare antistante la città. Fin dai primordi della navigazione il porto ha anche una funzione sacrale, in quanto rappresenta per i marinai un anello magico a difesa delle influenze malefiche dei demoni inferi, che popolano il mare aperto. Per questi motivi esso è posto sempre sotto l’alta protezione di una benefica deità marina, a cui ogni equipaggio affida peraltro, al momento della partenza, le sorti del viaggio e del ritorno. Il porto dell’Itaca di Ulisse è sacrato al vecchio dio marino Forco; in età classica il grande e cosmopolita porto di Alessandria, in Egitto, ha ben tre templi quali baluardo magico-sacrale : uno consacrato a Poseidone e due alla dea Iside, nella sua connotazione di patrona delle genti di mare.

Al dio del mare, Poseidone, è sacrato anche l’unico porto, degno di questo nome, menzionato da Omero nell’Odissea: quello dei Feaci nell’isola di Scheria. Certo la descrizione omerica di quest’ultimo porto rimanda ad un archetipo di porto ideale e perfetto con i due approdi dalle imboccature diametralmente opposte, in modo da permettere comunque il rientro delle navi con qualsiasi tipo di mare mosso. Ma questa tipologia non deve essere tanto rara nella realtà storica del tempo, considerato che vi sono popolazioni greche dedite, al pari dei Feaci, anima e corpo alle cose di mare e in grado dunque di ricorrere ad una soluzione di tal tipo. Nella vivida descrizione omerica del porto dei Feaci i due approdi, che formano un unico complesso, sorgono a destra e a sinistra di uno stretto istmo, che conduce all’acropoli fortificata di alte mura. Sull’istmo sorge un vasto foro, che permette le riparazioni e il deposito delle attrezzature navali, nonché il commercio dei prodotti arrivati per mare; sovrintende a questa cosmopolita vita marinara il maestoso tempio consacrato a Poseidone. Ed è proprio a Poseidone che i Greci, prima di ogni spedizione navale, particolarmente impegnativa e rischiosa, immolano sulla spiaggia immediatamente antistante le navi dei tori neri. Consuetudine gentile e fascinosa è poi quella del rito augurale, all’inizio di ogni viaggio per mare, che consiste in un brindisi dei rematori, che, seduti ieraticamente ai banchi di voga, con coppe ricolme di vino libano alle divinità del mare, immortali ed onnipotenti, primo fra tutte il grande Poseidone, l’enosigeo “dalla chioma azzurra”.

Il brindisi dei rematori, coincidendo in quel tempo la loro figura sempre con quella di guerrieri, signori della lancia, richiama poi, nemmeno tanto velatamente, una funzione essenziale nella vita comunitaria di uomini che, legati da un’unità di intenti, sono tesi verso l’ignoto, rappresentato dal “vasto oceano”. Quindi il brindisi non soltanto quale omaggio alle divinità del mare, di cui comunque s’invoca la protezione, ma anche solenne giuramento a non tirarsi mai indietro dinanzi a qualsivoglia pericolo. Per non venire mai meno a questi giuramenti i greci consegneranno alla storia marinara pagine di leggenda.

Dunque il vincolo del giuramento, sacralizzato dalla libagione a carattere rituale, è mediato, per tutti i consociati, dal vino, bevanda quest’ultima a sua volta sacrale da sempre presso i popoli antichi (presente successivamente anche nei riti del cristianesimo). Non a caso il Wilamowitz ha scritto che “la forza insita nell’atto del bere in comune è sempre qualcosa di divino”. Il bere in comune suggella pertanto un patto per la vita e per la morte e consolida ed esalta lo spirito di gruppo, già di per sé assai forte, nell’equipaggio di una nave della Grecia arcaica. Per quanto sopra scritto si può ipotizzare ragionevolmente di essere in presenza di una particolare forma, seppur primitiva, di eteria, così diffusa poi nella Grecia classica.

Il vino è dunque parte importante delle poche e parche provviste in dotazione ad una nave omerica. La nave di Telemaco, con venti uomini di equipaggio, porta come provviste dodici anfore di vino rosso e venti misure di frumento in otri di pelle (una misura equivale ad una capacità di circa 12 litri). Inoltre a bordo delle navi di quel tempo vi sono sempre lunghi archi e coltelli da caccia, per l’eventuale selvaggina fresca da catturare durante le soste. Per i lunghi viaggi si preferisce però portare in coperta del bestiame vivo di piccola taglia, da macellare all’occorrenza; solitamente trovano posto, oltre all’equipaggio, una decina di capre. In dotazione sempre alla nave sono numerosi, e diversi per grandezza, ami per pescare. Secondo Omero un corno di bue selvatico protegge, a mo’ di galleggiante, la cordicella sopra l’amo. Con questo sistema Ulisse riesce a catturare pesci e financo uccelli marini.

Un corno simile, che ha verosimilmente svolto la stessa bisogna è quello ritrovato dall’archeologo Orsi nel villaggio preistorico dei Sesi, nella contrada Mursia dell’isola di Pantelleria, lambita sicuramente dalle scorribande micenee. Nello stesso villaggio sono state rinvenute anche delle grosse pietre trapezoidali forate.

Altro suggestivo rito era quello praticato in onore dei marinai greci caduti durante il viaggio. Quando alcuni suoi compagni vengono uccisi durante la sfortunata sosta presso i feroci Ciconi, Odisseo, prima di abbandonare quella terra selvaggia dando l’ordine alle navi di salpare, fa compiere un rito che doveva essere comune a quel tempo. Tutti gli equipaggi delle navi chiamano a viva voce i nomi dei marinai uccisi. L’appello viene ripetuto tre volte per ogni singolo nominativo; annotiamo, per inciso che il 3 è uno dei numeri sacrali per eccellenza presso glia antichi. Questa toccante cerimonia testimonia un bellissimo rito funebre della marineria della Grecia arcaica, in cui, mediante il triplice appello, si invocavano le anime dei marinai caduti affinché tenessero dietro alle scie delle navi dei superstiti e giungessero così al sacro suolo della patria. Qui sarebbero stati ricordati con un cenotafio, in mancanza di una regolare sepoltura. È costume dell’equipaggio della nave omerica che, ripetiamo, era composto da uomini liberi e per lo più appartenenti all’aristocrazia guerriera, portare delle lunghe e fluenti capigliature. Tra essi figura di particolare spicco è quella del timoniere, a cui si richiede mano ferma quando infuriano le tempeste, ma soprattutto ci si affida nella pericolosa navigazione notturna.

Questo tipo di navigazione è per le navi omeriche ordinaria amministrazione. Una sola notte occorre a Telemaco per navigare da Itaca alla volta di Pilo, partendo di sera e terminando infatti il viaggio al primo chiarore dell’alba. Anche Nestore, quando lascia Troia con la sua flotta, giunge all’approdo di Geresto di notte. La fama dei timonieri più bravi è narrata, con particolare enfasi, nei poemi antichi. Omero ne ricorda per nome molti, tra cui Fronti, figlio di Onetore, “bravissimo fra tutti”. Fronti è il pilota della nave di Menelao. Altra importante incombenza del pilota è sorvegliare con attenzione il ritmo di voga degli uomini ai remi. La tenuta del ritmo è considerato, ed in effetti lo è, fondamentale per tutto il periodo della marineria remica; movimenti scoordinati, oltre a mettere in pericolo l’incolumità fisica degli stessi rematori e a provocare danni e rotture alle pale dei remi, possono compromettere perfino la stabilità nautica dello scafo che costruttivamente presenta la murata non molto alta rispetto al pelo dell’acqua. ” E così uno dietro l’altro battevano coi remi il grigio mare”, questi versi di Omero li ritroviamo in parecchi passi dell’Odissea ad indicare il regolare procedere della navigazione. Con la musicalità ritmata dei versi greci, il poeta cerca di rendere l’idea della ritmicità con cui la prua della nave, spinta dai remi, fende, una dietro l’altra, le onde del mare.

(capitolo tratto da: Orazio Ferrara, I Signori del mare. Appunti per una storia delle antiche marinerie, Sarno, Centro Studi I Dioscuri, 1998)

Orazio Ferrara (1948), scrittore e saggista, ha pubblicato i volumi “Parole sudiste, d’amore e altre ancora” (1978), “Storie Sarnesi” (1993), “Paputi un mito antico” (1994), “Arcaiche radici e diafane presenze” (1995), “Un capitano d’industria nella Valle del Sarno” (1995), “Il mito negato” (1996), “Sarno guida alla città” (1996, con altri autori), “Viva ‘o Rre. Episodi dimenticati della borbonica guerra per bande” (1997, vincitore 2° posto saggistica politica del Premio Internazionale Letterario Tito Casini di Firenze Ed. 1997), “Il Celeste Patrono della Gente di Mare. San Francesco da Paola” (1997), “L’antica terra murata della città di Sarno: San Matteo” (1998), “I Signori del mare. Appunti per una storia delle antiche marinerie” (1998). E’ redattore dei periodici locali La Voce ed Eventi, collabora a diverse riviste e giornali, tra cui L’Alfiere e la bilingue Santini & Similia. Dirige il Centro Studi di Storia, Archeologia e Araldica I Diòscuri.

 

 

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