La pesca in Andalusia nell’antichità

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INTRODUZIONE

Il termine “ri-conoscere” usato per il titolo di questo saggio risponde a due esigenze: da un lato si tratta di ribadire la grande importanza del patrimonio legato alle attività di pesca nella storia della gente di Spagna, dall’altro di recuperare alla conoscenza e alla fruizione buona parte di questo patrimonio.

Ri-conoscere il patrimonio “pescatorio” serve a farlo studiare e valutare sotto diversi aspetti: tecnici, antropologici, culturali. Scopo di questo saggio è anche dimostrare come la cultura odierna del mare legata alla pesca in Andalusia abbia basi antiche, che datano fino a tre mila anni addietro.

IL RACCONTO DEL PESCATORE

In uno dei suoi “Idilli” Teocrito, poeta greco di Siracusa del III secolo a.C., racconta del povero pescatore Asfalione che prima di andare a pescare raccontò al compagno – poverissimo anch’esso – di aver sognato di aver preso con la lenza un pesce molto grosso, e che quando lo tirò fuori dall’acqua con grandi sforzi scoprì che in realtà di trattava di un pesante lingotto d’oro a forma di pesce, dalla cui vendita ricavò quanto gli serviva per vivere agiatamente senza dovere andare più a pescare.

Il sogno di Asfalione è quello dei pescatori di ogni tempo: la grande pesca che tutto in una volta lo liberi dalla miseria e lo faccia diventare ricco. In realtà nessun pescatore ha mai trovato il suo lingotto d’oro, ma è indubitabile che in alcune zone, per coincidenze favorevoli, si siano sviluppate pesche che hanno assicurato buoni guadagni e benessere ai pescatori che le hanno esercitate: è il caso della cattura in grandi numeri di pesci migratori.

Nel caso dell’Andalusia la pesca dei migratori pelagici è sempre stata abbondante: Tonni (Thunnus thinnus), Bonitos (Sarda sarda – in italiano Palamita), Caballas (Scomber scombrus – it. Sgombro), Estorninos (Scomber japonicus – it. Macherello), Melvas (Auxis rochei – it. Tombarello/Biso), Bacoretas (Euthinnus allitteratus – it. Alletterato), e Albacoras (Thunnus alalunga – it. Alalunga); questi pesci in primavera entrano in Mediterraneo provenienti dall’Atlantico e in grandi gruppi attraversano lo Stretto di Gibilterra prima di distribuirsi in tutto il Mediterraneo dividendosi all’altezza del Mare di Alboran.

Ad est della direttrice Algeciras – Ceuta la densità dei grandi migratori diminuisce, e questo rende poco redditizia la pesca con grandi strutture (tonnara fissa e grande sciabica); lungo la costa andalusa le condizioni marine (fondali, correnti) offrono un habitat ideale per la pesca di specie minori, come la Sardina (Sardina pilchardus), i Bouquerones (Engraulis enrasicholus – it. acciughe), e le le Alaccie (Sardinella aurita). Questo stato di cose ha favorito la specializzazione dei pescatori della costa malaguena nella cattura di questi pesci azzurri minori, anche se non mancano le catture ricorrenti di altre specie più pregiate, come gli sparidi – Breca (Pagellus erythrinus – it. Pagello), Pargo (Pagrus pagrus, it. Pagro, Dentice rosso), Boga (Boops boops).

Lungo il litorale andaluso, dunque, si possono distinguere due tipi di pesca: quello ai grandi migratori (Tonni e altri Sgombridi) che equivalgono al “pesce d’oro” di Asfalion, e quello alle specie minori di pesce azzurro.

Tale differenziazione risulta evidente dall’esame dei resti di pesce trovati nelle anfore recuperate a mare e a terra, relative al periodo che va da IV secolo a.C. all’età Imperiale.

GIARDINI NEL MARE: TECNICA E ATTREZZATURE PER LA PESCA NELL’ANTICHITA’

Le differenze idrologiche e biologiche fra le varie zone di mare al di qua e al di là dello Stretto hanno comportato una differenziazione delle tecniche e delle attrezzature per la pesca. Il fatto che gli attrezzi nell’antichità fossero realizzati soprattutto con materiale deperibile (fibre vegetali) non ha impedito all’archeologia di studiare il settore e di recuperare alcuni reperti che possono offrire importanti testimonianze per quanto riguarda il litorale andaluso.

Lo studio è reso più facile dal frequente ritrovamento di pesi per le reti, in piombo o pietra, e di ami o aghi metallici per la realizzazione delle reti; questi reperti hanno consentito anche di investigare sul tipo di pesca frequentata e sui pesci catturati con maggiore frequenza.

La letteratura classica (Aristotele, Oppiano, Eliano, Filostrato e soprattutto Plinio), e la iconografia sono senza dubbio fondamentali per conoscere le tecniche di pesca più usate nell’antichità, ma il tono poetico e gli stereotipi non offrono quei dettagli che invece la ricerca archeologica e scientifica possono fornire.

Le ricerche effettuate hanno così accertato che lungo la costa malaguena nell’antichità – fin dalla prima presenza fenicia – sono state usate soprattutto reti a maglia molto stretta, mentre nella zona di Cadice, nello stesso periodo (VII sec. a.C.) venivano usati soprattutto la lenza e gli ami: fattori culturali e geografici hanno condizionato questa diversità nella pesca andalusa dell’epoca protostorica. Nel medesimo periodo, con minore frequenza, per la pesca si usavano anche altri strumenti come i “corrales” e la fiocina.

La pesca con la lenza non è comunque necessariamente poco produttiva: solitamente si associa alla figura del pescatore solitario che cattura appena ciò che serve al suo sostentamento, ma non si deve dimenticare l’altro tipo di lenza alla quale vengono attaccati molti ami, cioè il palangrese (palangaro, conzo). Questo tipo di pesca diretto ai grandi sgombridi – che catturava anche squali, come dimostrano i reperti archeologici – era molto praticata dai pescatori gaditani che, secondo Aristotele, si avventuravano a pescare fino ai banchi sahariani con fragili navi chiamate “Hippoi”; Eliano (II sec. d.C.) descrive la pesca dei Palamiti con lenze e ami innescati con piume; analoga attrezzatura viene descritta alla fine del 18° secolo da Sanez Reguart, che la chiama “bonitolera”.

L’impiego dei palangresi nella pesca dei grandi sgombridi (tonni, palamiti, tombarelli) però non assicurava il sufficiente approvvigionamento all’industria della salagione, che traeva la materia prima soprattutto con le tecniche di accerchiamento dei branchi che in determinati periodi percorrono le acque costiere: per questo venivano impiegate le tonnare.

Contrariamente a quanto si crede, la tonnara fissa – sia “di bocca” che a “monteleva”, più complessa – non è stata usata nel litorale andaluso fino al secolo 19mo, pur essendo la sua origine molto più antica.

Le “tonnare” impiegate sul litorale andaluso fino a tempi recenti, invece, erano quelle “di vista e di tiro” (simili alle reti tonere usate fino al 1950 nel golfo di Trieste. Ndt), costituite da una rete mobile calata in mare da una o più imbarcazioni agli ordini di un “avvistatore” posizionato su una torre o un’altura (Thynnoskopeion), che dirige le barche sul branco avvistato dall’alto; la rete circonda i pesci e le estremità vengono portate a terra dove gli uomini le tirano fin sulla riva, e i pesci vengono catturati quando sono ristretti in pochi centimetri di acqua.

La sciabica è una versione ridotta della “tonnara di tiro” di cui si è appena parlato: anche essa si tira dalla spiaggia dopo che le reti calate dalle barche hanno circuito i branchi di pesce. Nell’antichità questa rete veniva chiamata “sagena”. La sciabica è stata usata tradizionalmente nel litorale mediterraneo dell’Andalusia, e anche sul versante atlantico per la cattura di sardine e acciughe.

Al contrario della tonnara “di tiro” e della sciabica i tramagli (tremaglie) sono strutture di pesca fisse, anche se in alcuni casi un capo della rete può essere lasciata libera alla deriva; si tratta di lunghe reti composte anche da più strati di rete a maglia diversa, dove i pesci si avviluppano e non possono più fuggire. La profondità di pesca si può regolare con l’impiego di pesi e galleggianti: è possibile che alcune grosse pietre forate rinvenute sui fondali marini della costa andalusa, e che sono state interpretate come ancore arcaiche (litiche) fossero in realtà pesi da rete tramaglio. Un tipo più semplice di tramaglio, composta da un solo strato di rete, veniva chiamato “piquera”, ed Oppiano lo descrive benissimo parlando della pesca dello sgombro. E’ verosimile che l’impiego di questo tipo di rete, che cattura pesci di dimensioni omogenee, sia alla base della omogeneità del contenuto rinvenuto in alcune anfore e nelle vasche per la salagione (sono stati rinvenuti resti di sgombri e sardine tutti della stessa dimensione).

Infine, c’è da ricordare la pesca di gasteropodi (conchiglie) da cui si traeva la porpora: è acclarato che questi venivano catturati con le nasse innescate con piccoli crostacei.

ORGANIZZAZIONE SOCIALE In epoca punica è minima l’informazione sulla strutturazione sociale dei pescatori e delle imprese di trasformazione del pescato; al contrario in epoca romana diverse iscrizioni e brani di letteratura permettono di ricostruire la realtà sociale dei pescatori.

Una antica iscrizione trovata a Gallipoli ma proveniente sicuramente da Parion, sulla costa asiatica dei Dardanelli, riporta in lingua greca i nomi ed i compiti di una società di pescatori che aveva ottenuto il diritto di pescare tonni e sgombri in una zona chiamata Nileo. In questa zona dell’Ellesponto, così come nel vicino Bosforo dove era prospera la città di Bisanzio, la pesca degli sgombridi fin dall’antichità fu molto remunerativa, al punto che la società di pescatori a cui si fa riferimento nell’iscrizione risulta costituita e coesa per il lavoro comune svolto nell’ambito della “almadraba/tonnara”, una specializzazione tanto rispettata da fare nascere un certo orgoglio di casta per chi ci lavorava, e che poneva quei pescatori in cima alla scala sociale della categoria. Veri “Signori dei tonni”, i “tonnaroti” di Parion (che a volte pescavano anche sgombri) appartenevano alla aristocrazia dei pescatori, e perpetuavano la loro supremazia trasmettendo entro le loro famiglie i segreti dei rais/arraez.

Molto differente doveva essere la situazione dei pescatori più modesti, la cui organizzazione si realizzava in seno alla famiglia. Per fare fronte alle spese per il reperimento e mantenimento delle barche e degli attrezzi da pesca, spesso si rivolgevano per prestiti o anticipazioni ai rivenditori cui avrebbero portato il pesce, o ai detentori dei diritti di pesca che li arrendavano ai pescatori.

Per quanto riguarda le corporazioni/associazioni di pescatori – come nel caso della iscrizione di Parion – solitamente si trattava di uomini liberi che abitavano nelle zone di mare che si associavano in corporazioni, a volte alle dipendenze di terzi che impiegavano i propri capitali nell’impresa di pesca; nel caso dei “tonnaroti” ante litteram si trattava di pescatori che nell’ambito della categoria godevano di un rispetto e stima maggiore, costituendo quasi una “casta”, così come è avvenuto fino a pochi anni addietro nei porti mediterranei dove si pescava il tonno con la tonnara (gli Autori qui richiamano il volume “L’ultima muciara. Storia della tonnara di Bonagia” di Ninni Ravazza, uno dei tre studiosi italiani citati in bibliografia. Ndt.).

 

IL SALE E IL SOLE: CONSERVAZIONE E LAVORAZIONE DEL PESCATO NEL LITORALE ANDALUSO NELL’ANTICHITA’

 

Nell’antichità la gran parte del pesce catturato lungo la costa andalusa veniva conservata per venire consumata in un ampio lasso di tempo. I metodi di conservazione principali erano due, a seconda che si trattasse della salagione di tranci di grandi pesci o di piccoli pesci salati interi (ta/rixoj o salsamentum), oppure di passati o salsa realizzati mediante la essiccazione – totale o parziale – di interiora di grandi pesci, ovvero di piccoli pesci completi (garum, liquamen). Ambedue i trattamenti richiedevano un lungo processo di esposizione al sole con abbondante uso di sale; il processo poteva venire accelerato col riscaldamento del prodotto.

In alcuni casi il procedimento si realizzava in strutture urbane o rurali, che venivano chiamate “fattorie di salagione”: quelle più antiche nella costa andalusa risalgono al VII secolo a.C. (nel Cerro del Villar). I prodotti della salagione in Andalusia erano molto apprezzati in tutto il Mediterraneo, come dimostrano i reperti rinvenuti all’interno delle anfore, almeno dal V secolo a.C.

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