Buzzi e muciare

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IL MITO
Nel 1897 uscì in Inghilterra un libro che mise in subbuglio il mondo scientifico europeo: “The Authoress of the Odyssey”, L’Autrice dell’Odissea.

Lo aveva scritto Samuel Butler, un letterato che George Bernard Shaw definì “nel suo campo, il più grande scrittore inglese della seconda metà del secolo 19mo”.

Butler, dopo aver studiato a fondo, come pochi altri, l’Odissea, pervenne alla convinzione che il maggiore poema omerico fosse stato scritto in realtà da una donna, e da una donna trapanese, intorno all’anno Mille avanti Cristo. A supporto della sua tesi portò tante e tali prove, da fare numerosi proseliti, non solo fra gli eruditi trapanesi ma anche nella cultura inglese del suo tempo. Butler si recò diverse volte a Trapani per trovare i riscontri alle sue ipotesi: il racconto epico – concluse – trovava in Trapani e nelle sue isole uno scenario perfetto e rispondente alla descrizione dei posti ove Odisseo condusse la sua peregrinazione, fino al ritorno ad Itaca individuata in Marettimo – Hiera, l’isola sacra di greci e romani.

I Feaci, popolo di grandi navigatori, per Samuel Butler sarebbero stati i progenitori dei trapanesi, e l’odierna Trapani sarebbe l’antica Scherie, dove “bello ai lati della città s’apre un porto/ ma stretta è l’entrata; le navi ben manovrabili lungo la strada/ son tratte in secco, per tutte, a una a una, c’è il posto …” (libro VI).

A Trapani/Scherie i carpentieri navali costruivano per i marinai del posto – definiti in più passi “amanti del remo” e “navigatori famosi” – imbarcazioni famose per la velocità e la manovrabilità “Perché nulla importa ai Feaci d’arco e faretra,/ ma d’alberi e remi di navi e di navi diritte:/ con esse superbi traversano il mare schiumoso …” (siamo ancora al VI libro).

Dopo Butler, altri studiosi si sono cimentati nel tentativo di affermare l’origine trapanese dell’Odissea (ricordo il trapanese Pietro Sugameli e l’inglese Henry Festing Jones che accompagnarono Butler nella ricerca dei luoghi dell’Odissea, l’altro trapanese Vincenzo Barrabini che una trentina di anni addietro scrisse l’oggi introvabile “Origini trapanesi dell’Odissea”, gli inglesi Robert Graves e il docente di Canterbury Lewis Greeville Pocock che ha scritto “Reality and allegory in the Odyssey”). Il Prof. Dario Sabbatucci, ordinario alla Sapienza di Roma, nella prefazione a “L’Autrice dell’Odissea”, scrive che “Dopo aver letto questo libro credo che veramente l’Odissea sia stata scritta da una donna di Trapani …”.

Non so se Samuel Butler ed i suoi epigoni abbiano ragione, ma a me – trapanese – piace pensare che davvero l’Odissea sia stata immaginata da un poeta seduto sulla riva del mare davanti alle isole Egadi, con il sole che tramonta alle spalle di Marettimo/Itaca.

Ma se davvero fosse così, allora la perizia, la bravura dei carpentieri navali trapanesi avrebbe origini antichissime, le cui radici affondano addirittura nel mito, quando la nave da essi costruita “correva sicura, diritta; neppur lo sparviero,/ il nibbio, l’avrebbe seguita, tra i volanti il più rapido./ Così, correndo veloce, l’onda del mare solcava …” (libro XIII).

LA MADONNA DI TRAPANI

Facciamo ora un salto di oltre duemila anni, e arriviamo al XIII secolo. In questo periodo il porto di Trapani è un importantissimo nodo per i collegamenti con la Terrasanta; vascelli di ogni nazionalità si fermano in attesa del tempo propizio, per fare cambusa e acqua, per le riparazioni dopo lunghe navigazioni. E questa è storia.

Certamente in quegli anni lavorano a pieno ritmo i cantieri navali ubicati nelle zone più ridossate del bacino portuale, ancora oggi occupate dai cantieri.

Narra la leggenda che nel 1244 la nave del Cavalieri Templarj che trasportava la statua della Madonna che sarebbe divenuta la patrona della città, di ritorno dalla Terrasanta, dopo avere urtato contro i bassi fondali si fermò nel porto di Trapani per le necessarie riparazioni, e sbarcò la statua nel cantiere navale “accanto alla torre dei Pali”.

Poco importa quanto di vero ci sia nella leggenda sulla elezione della Madonna a patrona di Trapani: di certo dunque già nel XIII secolo nella zona di levante del porto operavano diversi cantieri navali, e proprio dove sarebbe stata sbarcata la statua ancora oggi si trova un cantiere che lavora il legno, dove ormai non si costruiscono più imbarcazioni ma si effettuano riparazioni e trasformazioni.

Alla fine del 1500 lo storico Giò Francesco Pugnatore nella sua “Historia di Trapani” ricorda come da secoli i marinai trapanesi “per tutto il mar navigando rendevano il nome di Trapani chiaro in ogni parte, e famoso”.

Lo stesso autore, raccogliendo una leggenda metropolitana – ne esistevano anche allora – afferma che il trapanese Antonio Ciminiello, inventore del “bulino” (lo strumento per fare dei rami di corallo vere e proprie opere d’arte), fu anche l’inventore “dell’arbor e della vela che le galee ora portano a prua”.

Verosimilmente si tratta di un credito troppo grosso per l’enciclopedico inventore trapanese, ma è senz’altro una testimonianza di quanto fosse radicata a Trapani l’arte marinaresca.

I CANTIERI NAVALI E I MASTRI D’ASCIA DI OGGI

Attualmente sono pochi nella provincia di Trapani i cantieri navali tradizionali che lavorano il legno; molti si sono riconvertiti e costruiscono natanti in ferro o vetroresina. Soprattutto la vetroresina viene ormai impiegata per la realizzazione di imbarcazioni da diporto: motoscafi ma anche piccoli e medi gozzi.

Le marine ove operano i cantieri sono Trapani, Marsala, Mazara del Vallo.

Gli operatori che lavorano il legno per farne barche sono chiamati in generale mastri d’ascia; a Trapani i carpentieri navali vengono chiamati “Mastri ‘marina”.

Nella distinzione antropologica fra “mastro d’ascia d’opira rossa” e “mastro d’ascia d’opira fina”, i mastri ‘marina vanno inseriti certamente nella prima categoria, carpentieri che si procurano il legname ancora sotto forma grezza di tronchi o ceppi segati, e da questi ricavano le forme che daranno vita alle barche. L’ opera “fina” è quella propria di intagliatori, ebanisti e altri carpentieri che realizzano lavori di precisione su tavole già pronte.

In questo nostro viaggio nei cantieri tradizionali della provincia più occidentale di Sicilia ho preso in considerazione le marine di Mazara del Vallo e di Trapani, emblematiche della situazione attuale.

MAZARA DEL VALLO Iniziamo da Mazara del Vallo, sede della maggiore flotta peschereccia d’Italia.

Contrariamente a quanto si potrebbe credere, la tradizionale cantieristica in legno a Mazara del Vallo è praticamente scomparsa; oggi i due grandi cantieri esistenti costruiscono esclusivamente in ferro, ed a realizzare piccole imbarcazioni di legno è rimasto solo un piccolissimo cantiere artigianale, gestito da Giovanni Pireti e dai suoi figli, peraltro senza sbocco a mare. Le imbarcazioni realizzate – o quelle da rimettere – vengono portate in cantiere con le autogru.

A Mazara il tipo di pesca maggiormente praticato è sempre stato lo strascico, effettuato dalle “paranze”; prima dell’affermarsi dei motori diesel sulle barche, qui venivano costruite paranze in legno lunghe 12/14 metri, armate con la vela latina e fiocco, che spesso lavoravano in coppia per trascinare la “cala”; le barche più grandi avevano anche il bompresso e venivano chiamate “Matticane”, avevano 10/12 uomini di equipaggio. Altri tipi di rete usata erano la “squadrara” per catturare gli squali “squadri” che vivono sulla sabbia (questo tipo di pesca è scomparso una cinquantina di anni addietro), ed i “baltassuna” dalle maglie diversificate per catturare sia i pesci di scoglio che quelli di mezz’acqua.

Il tipo di barca medio/piccola più frequentemente costruita dai cantieri mazaresi era la “barca ‘sarde”, simile alla “sardara” palermitana ma di dimensioni minori (6/7 metri di lunghezza, a doppia prua, con 8 uomini di equipaggio, armata con vela latina senza fiocco). La rete usata era la “tratta”.

Era questa la barca tradizionale mazarese: oggi non ne esiste alcun esemplare in navigazione; qualche barca con queste caratteristiche è stata acquistata nel palermitano, fornita di piccola cabina per il motore, ed ora è adibita alla pesca con i tremagli o con l’angameddu – sorta di piccolo strascico in metallo.

Il 40 per cento circa delle oltre 400 barche della flotta mazarese è stato realizzato in ferro negli ultimi 15 anni; il rimanente 60 per cento della flotta – motopescherecci in legno – ha da 15 a 30 anni di età. Il ferro ha sostituito il legno per via dei finanziamenti (che non vengono erogati per la costruzione delle barche in legno), e anche per la maggiore duttilità del metallo nella lavorazione: il ferro viene sagomato e tagliato con l’ausilio dei computer, e poi le diverse parti sono assemblate insieme. Si tratta di una specie di grande kit di montaggio.

Questa situazione ha comportato la perdita della tradizione della carpenteria navale in legno: oggi a Mazara del Vallo è molto difficile trovare i mastri d’ascia, anche se il legno è ampiamente usato pure nelle navi in ferro: dalla coperta agli interni. Così nei due cantieri navali maggiori si è proceduto ad una riconversione dei falegnami “terricoli”, assumendoli e insegnando loro – magari con la guida degli anziani maestri d’ascia – a lavorare in funzione delle esigenze delle imbarcazioni. Ovviamente questi stessi ex falegnami collaborano con i carpentieri più anziani ed esperti nella manutenzione e nelle riparazioni agli scafi in legno, che i grandi cantieri continuano ad effettuare.

Oggi le tradizionali barche in legno (gozzi e lance) vengono costruite solo dal cantiere Pireti; il titolare Giovanni da tempo ha dismesso l’antico uso del “mezzo garbo” per realizzare le ordinate delle barche, e preferisce ricorrere al disegno per dare forma e vita alle imbarcazioni. Della tecnica del “mezzo garbo” parleremo in seguito.

Per le sue barche – di lunghezza massima di 7/8 metri – Giovanni Pireti impiega il legno di gelso per l’ossatura – madieri e staminali – il Pino di Calabria per il fasciame esterno, il “legno ‘ferro” – l’ “azobbè” che viene dall’Africa – per la chiglia, che una volta era di quercia. La stessa azobbè a volte viene usata per il fasciame; i bagli e la coperta sono realizzati in pino.

Pireti spesso va a cercare personalmente presso i venditori di legname quei tronchi di gelso che per natura presentano una curvatura particolare che segue il disegno previsto per le ordinate: in pratica è la ricerca del “garbo” naturale, non forzato dall’uomo.

 

IL“GARBO”

 

Apriamo una breve parentesi sul “garbo”: anticamente era una delle caratteristiche dello scafo: la sua “rotondità”, la “pancia”; le altre misure erano la lunghezza, la larghezza, l’altezza.

Ancora oggi nella marineria trapanese si usa il termine “aggarbato” per significare la curvatura di una struttura.

E veniamo al “mezzo garbo”, l’attrezzo usato dai mastri ‘marina per dare la forma alle ordinate, e dunque alla barca.

Innanzitutto perché “mezzo”: abbiamo visto come il “garbo” stia a indicare la rotondità dello scafo; bene, l’attrezzo di cui parliamo viene usato per realizzare le ordinate simmetriche della barca, a dritta e a sinistra della chiglia, alternativamente. Lo strumento – in legno di piccolo spessore – riproduce la mezza sezione maestra dell’imbarcazione da costruire; su questo sono tracciati segni numerati che permettono di mutare le dimensioni e la sagomatura della struttura – madieri e staminali – man mano che si va verso poppa o verso prua. Poiché le ordinate sono simmetriche, dopo aver realizzato l’ordinata di una mezza sezione, si gira il mezzo garbo dalla parte opposta (anche qui sono tracciati i medesimi segnali) per realizzare l’altra metà della sezione. Questa tecnica costruttiva viene applicata alle barche di piccola e media dimensione.

Il “mezzo garbo” è uno dei segreti dell’arte dei mastri ‘marina: ognuno si costruisce il suo – anzi i suoi a seconda delle dimensioni da dare alla barca – e ritiene che sia il migliore. Un tempo per indicare la bravura di un costruttore si diceva che aveva “un buon mezzo garbo”.

Oggi l’uso di questo strumento è rimasto appannaggio di pochi costruttori, e lo stesso Giovanni Pireti di Mazara – che prima lo impiegava – ora preferisce ricorrere alla tecnica del disegno per definire la struttura delle barche che costruisce.

 

 

I CANTIERI DI TRAPANI

 

Passiamo alla situazione di Trapani. Che dal punto di vista della tradizione cantieristica non è felicissima.

I cantieri navali che costruiscono barche in legno sono rimasti in due o tre; gli altri si limitano al rimessaggio e alle riparazioni o trasformazioni (quelle più frequenti sono da poppa tonda a poppa quadra per i pescherecci).

La flotta peschereccia di Trapani – composta quasi tutta da natanti in legno (soprattutto quelli medio/piccoli) – è dedita principalmente alla pesca a strascico (la paranza) e da circuizione (il cianciolo); il tipo di pesca dà il nome alla tipologia della barca, ma avviene spesso che l’impiego – il “mestiere” – venga alternato, così con solo piccoli adattamenti nelle sovrastrutture capita che lo stesso peschereccio venga chiamato di volta in volta “paranza” o “cianciolo”.

Un’altra metodologia di pesca è quella con le reti “tremaglie”, che viene praticata anche da imbarcazioni di piccole e medie dimensioni; non molto diffuso è l’impiego di conzi o palangari; poche sono le barche che pescano con le nasse: ambedue questi metodi sono invece praticati dalla marineria di Marsala.

I tipi di barca usati per questi metodi di pesca non richiedono grosse differenziazioni strutturali, e come abbiamo visto spesso la stessa imbarcazione – a seconda del periodo o della specializzazione del capitano (che sovente è lo stesso armatore/proprietario) – si adatta ai diversi impieghi alieutici.

Sono scomparsi dai mari di Trapani, purtroppo, i tradizionali “schifazzi”, barconi tuttofare per il trasporto di cose e persone; venivano usati soprattutto per il trasporto del sale, dei conci di tufo, dei tonni, tutti impieghi legati alle tradizionali attività del territorio trapanese.

L’unico esemplare di schifazzo che oggi si può vedere a Trapani è poco più di un relitto tirato in secco in un cantiere abbandonato; lo scafo – in ultimo adattato al diporto – è stato modificato nelle sovrastrutture e non risponde più ai canoni tipici di questo tipo di imbarcazione. In questa zona del porto fino a 30 anni fa operavano 4 cantieri tradizionali in legno.

Ai pochi cantieri navali che ancora impiegano maestranze in grado di lavorare il legno con sapienza, sono stati affidati recentemente compiti particolari, che hanno portato a compimento con la tradizionale maestria.

Così il cantiere Daromarci di mastro Michele D’Amico l’anno scorso ha realizzato i complicati ingranaggi di un mulino a vento che la passione di un’antica famiglia trapanese ha voluto restituire alla vita ripristinandolo e facendolo ancora funzionare.

Lo stesso cantiere ha iniziato la realizzazione della “Venus Ericina”, la ricostruzione della nave oneraria romana del II secolo d.C. che la facoltà di Archeologia Navale di Trapani ha avviato in collaborazione con l’Amministrazione Provinciale e l’Università di Bologna. Attualmente sono stati impostati la chiglia e le ruote di poppa e di prua; si attendono i nuovi finanziamenti per proseguire l’opera e mettere a mare la nave, che navigherà a vela e remi sulle rotte di romani e fenici.

 

LE TIPOLOGIE DI BARCHE TRADIZIONALI

 

Due sono i tipi di barca che più di altri hanno connotato l’arte dei mastri ‘marina trapanesi: il “buzzo” e in generale le barche di tonnara (quello che in gergo si definisce il “varcarizzo”, barcareccio).

Il “buzzo” è una barca di piccole dimensioni – da 4,5 metri ad un massimo di 7 – che dal 1700 alla metà del XX secolo è stata impiegata dai pescatori di Trapani e Marsala, la cui caratteristica principale erano le ruote di poppa e di prua rientranti. Oggi non ne esiste più alcun esemplare originale nel senso di imbarcazione costruita e impiegata per la pesca.

Il barcareccio – la flotta – delle tonnare invece non era un’esclusiva dei cantieri trapanesi, ma poiché la provincia di Trapani storicamente è sempre stata la più ricca di impianti fissi di pesca del tonno (nei secoli sono stati addirittura 22), i suoi cantieri erano quelli più di altri specializzati nella costruzione di vascelli e muciare. Se poi teniamo conto che a Marsala e Mazara del Vallo hanno operato solo pochissime tonnare e per di più saltuariamente, allora emerge chiara la preminenza dei cantieri della città di Trapani in questo tipo di costruzione, che ha caratteristiche assolutamente uniche.

Non dimentichiamo inoltre che attorno alla città di Trapani continuano a venire calate le ultime tonnare siciliane – Favignana e Bonagia – dove accanto ai moderni vascelli in ferro operano ancora natanti in legno vecchi di decine di anni.

 

 

Il BUZZO Il “buzzo”, o “buzo”, o ancora “uzzu” è stato per due secoli e mezzo la barca dei piccoli pescatori delle marinerie di Trapani e Marsala. Veniva impiegato soprattutto per la pesca con le nasse, le trappole di giunco – oggi acquistato a Cagliari o Catania, perché quello trapanese è meno resistente – per catturare aragoste, gronghi, polpi e altro pesce attirato dalle esche poste al loro interno. Il buzzo veniva usato anche per la pesca con i “conzi” – i palangari – con la “falanga” (attrezzo di metallo da strascico, più grosso dell’angameddu) e col “tartarune” rete vagantiva per catturare pesce azzurro.

Era una barca spartana, dalla lunghezza media di 6 metri per una tonnellata di stazza, molto larga (il rapporto larghezza/lunghezza era di 1 a 3), spinta da una vela latina e non sempre da un fiocco (in questo caso a prua c’era il bompresso – ‘u stasu), con un massimo di 6 remi e 8 uomini di equipaggio; le vele latine dell’armamento erano 3, a seconda del vento: vela grande – velettone – mangiavento; tre anche i fiocchi a disposizione.

La caratteristica principale erano le ruote di prua e di poppa (sarebbe errato parlare di “dritto” in questo caso) molto rientranti, cosa che le assicurava un aspetto pressoché unico, che trova un riscontro presso i gozzi liguri, anch’essi molto usati dal Settecento a metà Novecento, e in particolare col gozzo “cornigiotto”.

Con questa barca i marinai trapanesi si spingevano a pescare fino alla più lontana delle isole Egadi, Marettimo, ed a volte arrischiavano anche navigazioni fino alla Tunisia.

Oggi non esiste più alcun esemplare originale di “buzzo”, imbarcazione da pesca costruita per questa finalità, ed è un vero peccato; nessuno negli anni ha pensato di salvare i buzzi lasciati a marcire in riva ai cantieri, smembrati dall’uomo e dalle intemperie. Per nostra fortuna poco più di vent’anni fa l’anziano mastro ‘marina trapanese Ciccio Mancuso, nostalgico e appassionato, volle costruire un ultimo buzzo identico – nelle sue forme generali – a quelli che aveva costruito numerosi e che hanno segnato la storia della marineria locale. Si tratta di una bella barca, robusta ed elegante pur nelle sue forme spartane, che però ha dovuto cedere parte delle sue caratteristiche alla modernità, e anche alle esigenze del committente: così è dotata di motore entrobordo diesel (e dunque di pozzetto per l’elica), e di una piccola e bassa cabina tanto comoda per il diporto ma che impedisce l’uso dei remi. Per il resto il buzzo “vivente” resta un omaggio alla tradizione ed alla maestria dei mastri ‘marina e dei pescatori trapanesi.

Vediamo quali erano le caratteristiche di questo tipo di barca attraverso le immagini del modello esistente – lungo metri 6,20 e largo 2 – e con l’ausilio di due carpentieri navali trapanesi, Mastro Nardo Barraco e Mastro Vito Campo, che mi hanno spiegato le fasi del lavoro e raccontato fatti e aneddoti.

Innanzitutto, come abbiamo detto, la particolare forma di poppa e prua, entrambe rientranti – cosa difficilmente riscontrabile in altri tipi di imbarcazioni. Il perché delle ruote rientranti non è chiaro: i due mastri ‘marina interpellati sono concordi nel dire che si trattava di una scelta esclusivamente estetica, “era uno stile” dice mastro Vito, e Mastro Nardo aggiunge che sotto vela la barca con questa prua navigava meglio.

Il buzzo solitamente era tutto pontato, e la coperta era eccezionalmente bolzonata, “ovata” o “arcata” dicono i mastri ‘marina; questa soluzione rispondeva a due precise esigenze: fare scorrere velocemente e fuoriuscire l’acqua eventualmente imbarcata nelle navigazioni a vela, e recuperare spazio sottocoperta dal momento che la barca era piuttosto bassa di fianchi.

A fare da contraltare ai fianchi bassi e da contrappeso alla coperta bolzonata, lungo i fianchi sopra l’opera morta correvano alte cinte (impavesate) fisse di legno – chiamate “pustizze” – che avevano un duplice compito: trattenere le nasse poggiate sulla coperta, e consentire ai rematori di vogare pur stando seduti sulla coperta (la posizione degli scalmi veniva sopraelevata rispetto al bordo normale). Le “pustizze” non correvano per tutto l’orlo della barca, ma si abbassavano fino a scomparire a poppa e prua.

Il capione – “campiuni” – di prua ( la pernaccia) era uguale per tutti i buzzi: una scultura in legno che per la sua forma i costruttori trapanesi chiamavano “chicca di addu”, cresta di gallo. I mastri ‘marina da me intervistati affermano che questo campiuni non aveva altro significato che estetico. Questa “cresta” non è presente nei gozzi cornigiotti, che hanno una pernaccia/campiuni limitata ad un prolungamento lineare del dritto di prua. Un bellissimo esemplare di “cornigiotto”, il “Can neigru” partecipa regolarmente alle regate di vela latina.

L’albero, corto e tozzo, era molto inclinato verso prua; l’antenna per la vela latina lunga quasi il doppio della barca era composta da due parti: il “caru” (carro) nella parte più bassa e il “supra antinna”.

Nella tradizione spesso i buzzi presentavano un fascione dai colori allegri con losanghe e altri disegni geometrici, mentre l’opera viva era nera di pece; il buzzo trapanese preso in esame sopra il bagnasciuga bianco e l’opera morta colorata di blu ha due strisce verdi, mentre l’ultima cinta e le “pustizze” sono di un vivace colore giallo.

Il legno usato per la costruzione dei buzzi era il rovere per la chiglia ed i dritti (o le ruote) di poppa e prua; a volte il rovere si usava anche per i madieri – ‘i materie.

L’ossatura (staminali) era in gelso; la coperta in pino o “pino pece” – pitch pine; di pino anche i bagli, le cinte e il fasciame esterno; l’albero in pitch pine; l’antenna di abete; i remi – come quasi sempre – in faggio; per il timone si prediligeva il noce, la barra – “iaci” – era di gelso.

IL BARCARECCIO DI TONNARA

Una speciale tipologia di barche è stata pensata e realizzata appositamente per la tonnara, natanti che non troverebbero uso e collocazione al di fuori della pesca del tonno, che proprio per questa sua unicità assume una “dimensione addizionale” nell’attività alieutica, come ha argutamente scritto l’etno antropologa prof.ssa Gabriella Mondardini Morelli.

I tipi di barca che vengono impiegati nelle tonnare sono il risultato di un’esperienza pratica nata dalla collaborazione fra tonnaroti e “mastri d’ascia”, che già nel XV secolo aveva portato alla definizione della flotta, praticamente identica a quella odierna; le dimensioni delle barche che compongono il barcareccio (“varcarizzo”) e la loro forma sono rimaste pressoché identiche nei secoli, tant’è che le moderne imbarcazioni in ferro, che alla fine degli anni ’80 hanno sostituito quelle tradizionali di legno, hanno mantenuto le stesse caratteristiche.

La consistenza del barcareccio a servizio delle tonnare varia a seconda della dimensione degli impianti di pesca: si va dalle 12 – 14 imbarcazioni delle tonnare più grandi (fino a 18 nelle tonnare siciliane di Favignana e Bonagia, e in quella Saline in Sardegna, alle 6 – 7 delle tonnarelle a “monta e leva” che operavano in Liguria, Campania, Toscana, alla unica barca “tonera” delle tratte dalmate.

Generalizzando, la flotta delle tonnare si può così suddividere: 2 vascelli (di ponente e di levante) lunghi da 18 a 22 metri, 2 “parascarmi” da 13/17 metri (il nome è la corruzione dell’italiano palischermo, natante adibito al trasporto di uomini e cose): questi due tipi di imbarcazione non avevano alcuna capacità di movimento autonomo e venivano trainati da 2 “rimorchi” (lunghi da 11 a 14 metri, con 8 coppie di remi) C’erano poi la muciara del rais (a doppia prua lunga 9 metri con 6 remi), la “muciaredda” del sottorais (simile alla muciara), 2/3 “bastarde” (lunghe 10 metri, a 6 remi, con la poppa quadra); infine una lancia lunga 5 metri a due remi per i piccoli spostamenti all’interno delle reti, chiamata “varvaricchio” a Bonagia. Tutte le imbarcazioni di tonnara non sono pontate e al massimo presentano un carabottino (chiamato “tamburetto”) a prua, mentre i bagli fungono anche da “banchi” per i rematori (nelle barche minori) o da supporto superiore per le paratie nei vascelli.

Con l’impiego delle barche a motore, i “rimorchi” prima addetti al traino dei vascelli vengono usati ormai soltanto per il trasporto di ancore e reti, e nella mattanza assieme ai “parascarmi” (anch’essi impiegati per trasportare “summi”, “rosase” e reti, e per salpare le “porte”) formano due lati del “quadrato” (gli altri due sono costituiti dai vascelli).

Alle porte di Trapani, a Bonagia dove da secoli opera una famosa e produttiva tonnara, l’antica flotta del rais, dismessa nel 1980 quando è stata sostituita dai nuovi natanti in ferro, è tirata in secco all’ombra della torre che dal XVI secolo protegge le reti dagli attacchi dei pirati: è un esempio praticamente unico di intera flotta di tonnara, dalle muciare ai vascelli, compreso un parascarmo vecchio di 100 anni, eppure nessuno si cura di restaurare o preservare le storiche imbarcazioni dalle offese del tempo e degli uomini; vi ricordo che la recentissima legge sul diporto individua in 25 anni il periodo minimo di costruzione per definire una barca ”storica”. Le altre barche lasciate a distruggersi sotto la torre hanno da 40 a 70 anni. Dalla flotta di Bonagia attingeremo abbondantemente per quanto riguarda le immagini.

Passiamo ai dettagli costruttivi del “barcareccio”, che sono grossomodo identici per tutte le imbarcazioni medie e grandi, dalle muciare ai vascelli, con le opportune diversificazioni per le dimensioni e per gli impieghi; i legni usati, le tecniche di costruzione, gli accorgimenti per realizzare tutti quegli orpelli indispensabili per la pesca del tonno, sono gli stessi per tutte le imbarcazioni.

Vascelli, parascarmi e muciare sono barconi estremamente stabili, quasi piatti nel fondo, con una stellatura minima: questo ha facilitato molto il lavoro del mastro ‘marina, che una volta poteva impostare un vascello col mezzo garbo praticamente senza spostare l’attrezzo – e dunque senza apportare correzioni alla forma delle ordinate – man mano che dalla sezione maestra procedeva verso poppa o verso prua. Era un lavoro facile, ma – dicono i mastri da me interpellati – faticoso per le dimensioni delle barche maggiori: negli ultimi tempi si preferiva invece ricorrere al disegno in scala della barca, poi su questo disegno si sviluppavano le ordinate, se ne facevano modelli in compensato e su questi si tagliavano madieri e staminali, che si potevano realizzare in due pezzi, oppure in diversi pezzi che venivano affiancati in doppio strato – in questo caso si parlava di “quintiate”.

Bastarde, rimorchi, parascarmi e vascelli avevano la poppa quadra, muciara del rais e muciaredda del sottorais erano a doppia prua; le muciare e le bastarde erano dotate di 3 coppie di remi (col mare calmo per gli spostamenti all’interno delle reti venivano usati solo 4 remi), e all’occorrenza per gli spostamenti da e per il porto da una vela a polaccone; delle imbarcazioni maggiori, solo i rimorchi – fino ad una quarantina di anni addietro – erano autonomi nella navigazione e venivano spinti da 6/8 coppie di remi; le altre barche nel tragitto da e per la tonnara venivano trainate, e all’interno delle reti si muovevano tirandosi sui cavi di superficie con l’ausilio di lunghe aste terminanti a uncino.

A proposito dell’impiego dei rimorchi per trainare il barcareccio, mi piace riportare un aneddoto appreso da Pio Solina – oggi quasi settantenne – grande tonnaroto e capobarca del rais Mommo Solina nella tonnara di Bonagia.

“Quando ho cominciato a fare il tonnaroto a Bonagia, nel 1950, racconta Pio, ero giovanissimo, avevo 14 anni, e anche basso di statura, e allora il ragioniere che gestiva il personale pensava che nemmeno ci arrivassi con i piedi nel vanco del rimorchio, allora si abbuava a 12 remi nel rimorchio per crociare, e io ero nel mezzo, avevo sei vogatori a poppa, e cinque a prua, la voga la comandava quello di prua, e allora ti davano pedate nei fianchi se sbagliavi a ‘gghiettare i rima, io davvero ci arrivavo giusto giusto ad appoggiare i piedi nel banco davanti, per fare forza sui remi, e quasi non mi ci volevano nemmeno in tonnara! Però avevo passione, e ho imparato presto. Pirate ‘nti cianchi non ne ho prese mai”.

I vascelli ed a volte i parascarmi di dimensioni maggiori erano dotati di due doppie chiglie (chiamate impropriamente “controchiglie”), poste accanto alla chiglia principale: il loro scopo non era quello di alette antirollio, ma di facilitare l’alaggio dei natanti sulle spiagge con i “parati” (tavole squadrate di rovere cosparse di sego per fare scivolare lo scafo) – cosa che avveniva frequentemente quando non c’erano ancora numerosi e sicuri porti – e per favorire la sosta a terra senza il pericolo che lo scafo si abbattesse da una parte o dall’altra.

Poppa e prua sono assolutamente verticali: le ruote sono altrettanti “dritti”.

Il legno usato per la costruzione del “barcareccio” era lo stesso sia per le barche piccole che per quelle grandi, con una grande preponderanza della quercia e delle sue varietà.

Passiamo in rassegna brevemente i legnami usati nei secoli dai mastri ‘marina trapanesi per la costruzione dei vascelli, che essendo le imbarcazioni maggiori erano anche quelle che richiedevano l’impiego di un numero maggiore di tipi di legno. Vedremo come con gli anni sia in alcuni casi cambiato il legname impiegato.

Nel 1771 il mastro ‘marina trapanese Giuseppe Greco costruì per la tonnara di Scopello un vascello lungo 75 palmi (circa 18 metri), largo al centro 13 palmi: i 48 madieri ed i 96 staminali erano in legno di cerro – dunque un tipo di quercia – così come la chiglia, gli “empitori” di poppa e di prua, la ruota di “proda”; il fasciame era di “pegno”, cioè pino. Per incatenare cinte (l’opera morta), “scusi”, empitori, palamizzano (paramezzale) vennero usati “cantara undeci di chiodi (circa mille chili); per il calafataggio 2 cantara di stoppa (200 chili) e 7 barili di pece nera per ricoprire la barca all’esterno. Prezzo del vascello così costruito 196,18 onze.

Veniamo ora agli ultimi vascelli tradizionali costruiti dai mastri ‘marina trapanesi, prima della riconversione in ferro della flotta dei rais, avvenuta a fine anni ’80 e agevolata dagli interventi finanziari della Regione che non potendo supportare economicamente l’attività di pesca, finanziò l’ammodernamento delle attrezzature. In questo caso parliamo di vascelli e parascarmi realizzati negli anni 1940/60, imbarcazioni lunghe da 14 a 22 metri. Per quanto riguarda i finanziamenti per le tonnare, oggi finalmente si attinge ai fondi dell’assessorato ai Beni Culturali, esplicito riconoscimento del valore storico e antropologico della pesca del tonno con gli impianti fissi.

La chiglia e i dritti sono sempre di rovere, così come madieri e staminali (nelle barche minori a volte per le ordinate si usavano anche olmo, gelso o frassino), in Libia dove i nostri maestri d’ascia andarono a lavorare fino al 1970 per i madieri veniva usato anche l’eucalipto per la facilità di reperire in loco il legname; il paramezzale è anch’esso solitamente di rovere, ma a volte in pitch pine perchè – come racconta Mastro Nardo Barraco – si trovavano tavole lunghe anche 16/18 metri e allora non c’era bisogno di fare congiunzioni e si poteva costruire in un solo pezzo ; lo specchio di poppa in pino o pitch pine; le cinte di pino; i braccioli indifferentemente di quercia, gelso o olmo; il capodibanda di pino o larice; le “serrette” in pino o rovere; il pagliolo – la parte più “umile” della barca, che si cambia spesso, definito “non essenziale” dai miei interlocutori – era costruito in abete; il “catenotto” di prua in rovere o pino; il “cane” di poppa era realizzato con legno di pino o olmo; nei vascelli lo “stirato” – il corridoio ove per la mattanza si posizionano i tonnaroti, divisi in cinque o sei squadre (“rimiggi”) da otto uomini ciascuna – era realizzato in pino o rovere, così come i “baglietti” che dividono i “rimiggi”; i parascarmi erano dotati di argani in legno – e successivamente in ferro – per alare le ancore ed i cavi di superficie: il perno degli argani era fissato al paramezzale, i supporti fissati fra due bagli erano in legno di rovere, gli argani in pino. Tali argani avevano 4 buchi contrapposti attraverso i quali passavano le lunghe “manovelle” in pino o rovere azionate da 2/3 uomini per parte.

Il fasciame, i dormienti, i braccioli, la chiglia e quant’altro venivano fissati con chiodi zincati e impernati con bacchette zincate e rondelle ribattute.

Completata la costruzione del natante, bisognava renderlo impermeabile: così prima si toglieva la pece dell’anno precedente bruciandola con mazzi di rete vecchia infiammati e attaccati ad un lungo bastone, poi si calafatava mettendo la stoppa fra i comenti, infine si passava la pece nuova – che intanto bolliva in un calderone – distribuendola per tutto l’esterno dello scafo (e anche sul capodibanda) con la tradizionale “lanata”, cioè strisce di pelle di pecora usate a mò di grande pennello.

A questo proposito desidero ricordare un aneddoto raccontatomi dal rais di Bonagia Sarino Renda, scomparso nei giorni scorsi alla veneranda età di 94 anni: prima dell’avvento dei sommozzatori in tonnara, i pescatori stavano ore e ore a scrutare il mare per scorgere l’arrivo dei tonni, e spesso si appoggiavano col mento all’orlo della muciara addormentandosi; il caldo del sole a volte scioglieva la pece che ricopriva l’orlo, ed i tonnaroti si svegliavano con la barba attaccata all’orlo dalla pece “squagliata”.

Come abbiamo visto, nei secoli materiali impiegati e tecniche di costruzione del barcareccio di tonnara non sono granché cambiati: se nel 1771 era il cerro il legname maggiormente usato per la costruzione del vascello, successivamente è stato privilegiato il rovere, anch’esso varietà della quercia come il cerro; il pino in tutte le sue varietà è rimasto un altro tipo di legname ampiamente impiegato, così come l’abete.

Ho accennato al lavoro dei mastri ‘marina trapanesi nelle tonnare di Libia quando queste erano di proprietà delle famiglie siciliane: poiché le maestranze non abitavano stabilmente in Libia, ma lì si trasferivano solo per il periodo della pesca del tonno, la eventuale costruzione di nuove barche avveniva con cadenze lunghe e particolari: i mastri cominciavano il lavoro dopo aver rimesso in mare tutto il barcarizzo dopo la pausa invernale, e arrivavano a impostare chiglia, ordinate, l’opera viva e a volte la prima cinta, poi a stagione di pesca conclusa tornavano a Trapani e riprendevano il lavoro l’anno seguente, alla ripresa dell’attività di pesca. Insomma, per realizzare un parascarmo ci volevano due stagioni di lavoro di 4 mastri ‘marina.

I mastri trapanesi da sempre hanno costruito vascelli e altre barche per tutte le tonnare italiane: così da uno studio dei carlofortini Salvatore Pomata e Tonino Sanna apprendiamo che ai primi dell’800 nei cantieri navali di Carloforte lavoravano anche i mastri d’ascia trapanesi Gavassino, che preparavano chiglia, madieri e staminali per i vascelli delle tonnare di Isola Piana e Portoscuso nel loro cantiere di Trapani, numeravano tutti i pezzi che poi imbarcavano su una nave e trasportavano a Carloforte, dove le imbarcazioni venivano assemblate e completate.

Poiché Gavassino non è un cognome trapanese, ho pensato subito ad un errore di trascrizione nei documenti sardi. Parlando con Mastro Nardo Barraco ho avuto la conferma del mio dubbio: il carpentiere navale trapanese, che per tutti gli anni ’60 del secolo trascorso ha lavorato nelle tonnare libiche, mi ha raccontato di avere riparato un vascello costruito a metà Ottocento dal mastro d’ascia trapanese Cavasino. Questo sì che è un cognome proprio di Trapani: dunque la famiglia Cavasino continuò a costruire barche per le tonnare sarde, trapanesi e libiche per buona parte del XIX secolo.Mastro Nardo racconta di avere conosciuto tutti i migliori mastri d’ascia di fine ‘800.

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