Tonnare e saline: una connessione economico-produttiva importante nella storia economica del litorale siciliano.

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E’ innegabile che in molte zone costiere della Sicilia la tonnara si sia configurata come un’industria, per così dire, principale, cioè induttrice di altre attività economiche collegate in base ad un rapporto di complementarietà ovvero di funzionalità. Quello delle tonnare è stato un indotto complesso in cui, sia pure con diversa intensità, sono stati coinvolti comparti agro-industriali, la cantieristica e l’artigianato.

 

Per disegnare, in prospettiva storica, una prima importante connessione economico-produttiva, basti ricordare che sin dal V secolo a.C. la conservazione del tonno è stata tecnicamente possibile grazie all’ampia disponibilità di sale (oltre che, ovviamente, alle caratteristiche fisiche e biochimiche della carne del pesce in esame) [1] . Perciò l’industria conserviera del tonno si è storicamente localizzata in prossimità di saline: lungo i circa 30 chilometri della “via del sale”, tra la laguna dello Stagnone (Marsala) e Trapani [2] , come nei “pantani” della Sicilia sud-orientale (Marzamemi, Vendicari, Morghella, Salato…).

La salina è un’estesa scacchiera le cui caselle di differente colorazione sono vasche collegate da chiuse e canali, ciascuna con la propria funzione nella progressiva precipitazione dei sali durante il processo di evaporazione dell’acqua. Nella salina, materia (l’acqua salmastra del mare e quella “dolce” del cielo) ed energia (il calore solare, la forza del vento) si combinano, grazie all’abilità dell’uomo, per ottenere un prodotto -il sale- che per una lunga fase della storia è stato strettamente collegato ad economia e potere [3] .

L’industria del sale – mulino a vento, salina, piramide di sale coperta da “canali”

Ciclo dell’acqua e flussi di energia da una parte, ciclo genetico del tonno e correnti marine dall’altra: al centro l’uomo a “governare” -con saline e tonnare- la complessità della natura, per farne economia. Tonnare e saline, quindi, come ingegnose “macchine”, ed architetture, sospese tra terraferma e mare aperto, tra natura e cultura.

Gli stabilimenti antichi per la lavorazione e conservazione del tonno [4] provvedevano, oltre che alla salagione delle eccedenze, anche alla preparazione di quello che i romani faranno passare alla storia come “garum” (garon per i greci). Si trattava di una dressing sauce allora apprezzatissima, la migliore delle quali era composta di interiora e sangue di tonno (aimàtion) [5] lasciate a macerare con il sale [6] in vasche impermeabilizzate di cocciopesto (taricheiai per i greci e cetariae per i romani) [7] disposte in serie; la macerazione durava circa due mesi laddove avveniva al calore del sole ma poteva anche essere accelerata grazie al calore artificialmente prodotto da una vicina fornace. Il sale, funzionando da antisettico, impediva la putrefazione, lasciando spazio solo ad una certa fermentazione microbica, indispensabile per la maturazione del prodotto. Al termine della macerazione, il garum veniva filtrato, così che si ottenevano due prodotti qualitativamente diversi: il flos gari (“fiore” di garum) ed il liquamen gari (di minor pregio). Principalmente confezionata in anfore per liquidi dalla bocca stretta e dalle dimesioni contenute [8] , la “salsa di tonno”, non di rado miscelata a vino [9] (aenogarum), ad olio (oleogarum), ad aceto (oxygarum) ovvero semplicemete ad acqua (hydrogarum), veniva stoccata in magazzini per poi essere collocata sul mercato. Si ritiene che le fattorie di salagione siciliane si limitassero a rifornire il mercato locale mentre è accertato che quelle iberiche si rivolgessero, attraverso ben collaudati percorsi marittimi, al mercato estero [10] .

Il “ciclo del prodotto” garum, iniziato coi greci già nel V secolo a. C., si avviò, tuttavia, verso il declino con il collasso dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.). Venuto meno il presidio della flotta romana, le coste siciliane, con il loro carico di vita sociale ed economica, non furono più al sicuro. Le cetariae dovettero subire ricorrenti incursioni piratesche, le quali resero massimamente rischiosa l’intrapresa economica della produzione del garum, per sua natura bisognosa di un periodo di lavorazione relativamente lungo. Il garum è ancora menzionato in un diploma, datato 716 d.C., emesso dell’abbazia di Corbie (Francia) e presumibilmente la sua produzione scomparve del tutto in età carolingia (IX secolo). Andato “fuori produzione” il garum, la salagione di tranci di tonno (tàrichos) -meno impegnativa in termini di durata del processo produttivo- poté emergere come il core business delle tonnare siciliane.

Il sodalizio tonno-sale era destinato a durare ancora a lungo, almeno fino allo scorcio del XIX secolo. Da quel momento, infatti, al sale si è affiancato, fino a sostituirlo quasi del tutto, l’olio d’oliva. Ed è esattamente qui che la storia delle tonnare di Sicilia incrocia, per esserne fecondata, quella di una famiglia: i Florio.

Vincenzo Florio (1799-1868), dopo aver trasformato “Il Coccodrillo” -la piccola drogheria paterna presso il mercato della Vuccirìa di Palermo- in un’impresa per il commercio internazionale dei coloniali, “si occupò sulla pesca de’ tonni, perfezionandone gli stromenti, ed inventandone dei nuovi; ed insegnò pure a tener conto delle parti del pesce, che pria si buttavano come inutili: nel che riuscì con molto profitto” [11] . Una delle intuizioni del capostipite dei Florio fu quella di legare la conservazione del tonno all’olio d’oliva, un prodotto tipico siciliano il cui commercio internazionale faceva -insieme a molte altre attività [12] – parte del suo business.

L’intuizione si tradusse in una vera e propria innovazione tecnologica, ad un tempo, di processo e di prodotto. Nelle tonnare Florio nuovi metodi di lavorazione e conservazione del tonno si sostituirono progressivamente a quelli tradizionali basati sul sale (innovazione di processo). Il tonno, conservato sott’olio, cambiava colore, odore, sapore, consistenza… diventava, sul piano organolettico e quindi commerciale, un “nuovo” prodotto (innovazione di prodotto).

L’innovazione descritta non sarebbe stata tecnicamente possibile se, all’inizio dell’Ottocento, i francesi Appert e Durand e gli inglesi Donking e Hall [13] non avessero a messo a punto un procedimento -detto “appertizzazione”- per la sterilizzazione delle scatole metalliche da destinare alla conservazione dei cibi. Con notevole ritardo rispetto ad altri cibi [14] , fu solo nel 1868, proprio quando Vincenzo Florio concludeva la sua parabola terrena, che l’appertizzazione fu applicata al tonno. La storia commerciale del tonno incrociava quella della banda stagnata [15] , meglio nota come latta che fino al 1882 l’Italia dovette importare, non essendo in grado di produrla.

Al passaggio dal sale all’olio, fece da pendant, sotto il profilo del packaging, l’abbandono del legno a favore del metallo, scomparendo, così, un segmento tradizionale dell’indotto della tonnara: i mastri barillari. A questi ultimi in particolare veniva affidata la costruzione dei tini, in cui veniva salato il tonno, e dei barili (di trentasei chili di capienza) [16] , in cui veniva poi stipato. Questi artigiani erano soliti trasferirsi, anche per lunghi periodi di tempo, dalla loro bottega direttamente nelle tonnare, dove eseguivano i lavori richiesti dal rais di terra. Al loro spostamento fisico si accompagnava un vero e proprio travaso -immateriale- di sapere artigianale dall’indotto del comparto vitilvinicolo a quello del comparto ittico, più precisamente dai bagli enologici alle tonnare.

Le altre tonnare dovettero adeguarsi alla nuova frontiera tecnologica fissata dai Florio. Al cavaliere Angelo Parodi [17] e ad altri capitani d’industria genovesi, che si erano ricavati, già dal 1857 [18] , un posto di primo piano nella gestione delle tecnologie per la conservazione in scatola degli alimenti, si rivolserò i follower dei Florio. Tra loro, negli anni ’10 del Novecento, il cavaliere Pietro Bruno di Belmonte che, tra il 1897 ed il 1907, era entrato in possesso dell’impianto di Porto Palo (Siracusa).

Se, col sale, l’economia del tonno era rimasta, per così dire, “aggrappata” al litorale, con l’olio, invece, essa si volse verso l’entroterra contadino. L’olio si poneva, invero, come trait d’union tra l’economia costiera delle tonnare e quella rurale organizzata attorno ai c.d. bagli.

Gianluca Serra gianlucaserra.gs@libero.it 

[1] Anche se gli archeologi hanno rinvenuto resti di orci in cui, già in età antica, il tonno veniva conservato sott’olio, è ragionevole ipotizzare che, fino alla metà del XVI secolo, la salagione rappresentò l’unica tecnica utilizzata su larga scala per sopperire alla deperibilità delle eccedenze di pescato. Proprio intorno alla metà del XVI secolo, con l’arrivo dai mari del nord sui mercati mediterranei del baccalà e dello stoccafisso, alla salatura si aggiunsero le tecniche dell’essiccazione e dell’affumicatura..

[2] Il porto di Trapani, dalla seconda metà del XVI secolo diventò il più importante d’Europa per l’esportazione del prezioso sale: gli “schifazzi”, barche a vela particolari appositamente impiegate per il trasporto dell’ “oro bianco”, percorrevano frenetici i canali dalle saline al porto. La crisi del settore giunse alla fine dell’Ottocento a causa della concorrenza sarda, all’interno dell’unificato -anche doganalmente- Regno d’Italia, nonché al progressivo affermarsi di metodi di conservazione dei cibi diversi dalla salagione.

 

[3] Hocquet Jean Claude, Il sale e il potere, Genova, 1990. Per il mondo antico cfr. G. Traina, Sale e saline nel Mediterraneo antico, La Parola del Passato, 266, 1992, pp. 363-368.

[4] Il professor Gianfranco Purpura -cui va il nostro particolare ringraziamento per la disponibilità e attenzione prestate al presente contributo- vi ha dedicato diverse pubblicazioni alle quali abbiamo attinto per ricostruire la fase antica della storia produttiva e commerciale del tonno. Pesca e stabilimenti antichi per la lavorazione del pesce in Sicilia. I – S. Vito (Trapani), Cala Minnola (Levanzo), Sicilia Archeologica, XV, 48, 1982, pp. 45-60; II – Isola delle Femmine (Palermo), Punta Molinazzo (Punta Rais), Tonnara del Cofano (Trapani), San Nicola (Favignana), Sicilia Archeologica, XVIII, 57 -58, 1985, pp. 59-86; III – Torre Vendicari (Noto), Capo Ognina (Siracusa), Sicilia Archeologica, XXII, 69 – 70, 1989, pp. 25-37; IV – Un bilancio, Atti V Rassegna di Archeologia subacquea (Giardini, 1990), Giardini, 1992, pp. 87-101.

[5] Anche gli intestini di tonno furuno utilizzati per la preparazione del garum.

[6] Prima dell’utilizzazione, il sale veniva forse triturato; la qualcosa è ulteriormente confermata dal ritrovamento di frammenti di macina in pietra lavica anche nel sito delle cetariae di San Vito lo Capo. G. Purpura, cit.

[7] Solo in parte scavate nel terreno, le vasche, in genere, erano disposte in serie nei pressi del mare, proprio come le piramidi di sale nelle saline, erano protette dalle intemperie attraverso dei tegoloni (canali). La forma delle vasche poteva essere circolare ovvero quadrangolare; in entrambi i casi gli angoli erano smussati per facilitarne la pulizia. Il rivestimento in cocciopesto era realizzato con minuti frammenti di anfore dismesse misti a calce.

[8] Ad esempio, nel I secolo d.C., sotto i Romani, le Dressel 7-9. Le anfore contenenti salsa ittica erano internamente rivestite da sostanze resinose che, oltre a conferire al prodotto un sapore particolare, impermeabilizzavano parzialmente le pareti del contenitore. G. Purpura, Le anfore, Archeogate, 2002.

[9] Tra i compensi, per così dire, materiali del tonnaroto figurava una certa razione giornaliera di vino. Il rais Giuseppe Barraco raccontava, di un prelibato liquore a base di vino e sangue di tonno (una specie di aenogarum) accidentalmente ottenuto nella tonnara di Tripoli durante una delle stagioni di pesca che precedettero la metaforica “mattanza” della seconda guerra mondiale. Caso volle che del vino ricevuto come compenso dall’allora sottorais Barraco, non fosse consumato subito ma imbottigliato dopo essere provvisoriamente rimasto in un recipiente di legno intriso di sangue di tonno; la bottiglia, o meglio il suo contenuto, invecchiò per circa un anno e all’apertura sorprese, per sapore, colore e consistenza, gli improvvisati sommeliers della ciurma siculo-libica. Opportuno sarebbe che qualche istituto enologico dedicasse un minimo d’attenzione alla segreta alchimia che ha avuto come laboratorio quella bottiglia di Tripoli. Del resto, non mancano casi di eccellenti prodotti enologici -si pensi al Marsala dell’inglese Woodhouse- scoperti per puro caso.

[10] Le anfore utilizzate per il confezionamento, la conservazione ed il trasporto del garum, difficilmente si sarebbero prestate alla conservazione dei tranci di tonno e di altro pesce sotto sale (tàrichos), per la quale si ritiene fossero utilizzate anfore a bocca larga e più capienti (ad esempio, in età romana, le Dressel 22).

[11] Testo tratto dalla traduzione fatta nel 1871 da Cesare Donati del libro di Samuele Smiles “Storia degli uomini, che dal nulla seppero innalzarsi à più alti gradi in tutti i rami dell’umana attività”.

[12] Il nome dei Florio in Sicilia è legato a numerose attività: l’industria del vino liquoroso “Marsala”(strappata all’inglese Woodhouse); le zolfatare; la fonderia del ferro Oretea; la ceramica; il commercio internazionale di coloniali, agrumi, vino, olio; il giornale L’Ora di Palermo; la Compagnia della “Navigazione Generale Italiana” (da cui nascerà la Tirrenia); la finanza e le assicurazioni; le competizioni sportive (come la Targa Florio); le architetture Liberty di Palermo…

[13] Nel 1783 Nicolas Appert (1749-1841) mise a punto un procedimento sicuro, durevole e soprattutto neutro, cioè senza sapori aggiunti a quello della derrata, consistente in una duplice sterilizzazione con tappatura ermetica di boccali di vetro e immersione prolungata in acqua bollente. La scoperta fu il risultato di un sapere meramente empirico, dal momento che era assente qualsiasi ipotesi scientifica: né il vuoto né i germi rientravano nelle conoscenze di Appert. Le possibilità pratiche aperte dalla scoperta furono rilevanti. L’imperatore Napoleone, interessato a garantire l’autonomia alimentare dei suoi eserciti, fu il primo a capirlo: nel 1809 una lauta sovvenzione fu erogata ad Appert affinché il procedimento fosse perfezionato; nel 1810 il cuoco pubblicò un volume sulle tecniche di conservazione dei cibi e fu premiato da Napoleone. Appert non ebbe la lungimiranza di brevettare la sua idea e, così, sempre nel 1810 un certo Peter Durand, inglese, se ne appropriò, incominciando a studiare il modo per conservare il cibo in latte di metallo. Nel 1811 il suo brevetto fu usato da Dorkin e Hall che iniziano la produzione in scala industriale, diventando prima fornitori della Marina inglese e in seguito dell’esercito.

[14] La conservazione di carni e ortaggi in scatole metalliche sterilizzate ebbe inizio intorno al 1830. Il primo pesce ad essere inscatolato fu la sardina, in uno stabilimento di Nantes, nel 1835.

[15] Con il termine “imballaggi di banda stagnata” s’intendono gli imballaggi di acciaio il cui materiale di partenza è costituito da un sottile lamierino d’acciaio rivestimento da una patina anticorrosiva di stagno.

[16] I barili di tonno, realizzati in doghe di rovere o castagno tenute assieme da cerchi di ferro, contenevano da 45 a 50 “rotoli” di prodotto. Il rotolo, antica unità di misura, equivale a 800 grammi.

[17] Ironia della storia, quegli stessi Parodi di Genova sarebbero diventati -e lo sono ad oggi nonostante una lunga vacatio supplita dalla gestione Castiglione- i proprietari delle tonnare Florio di Favignana e Formica. Dei Florio l’attuale tonnara Parodi di Favignana conserva solo il nome: “Florio – Tonnare di Favignana e Formica srl”.

[18] Fu la guerra di Crimea del 1857, con la connessa esigenza di rifornire di viveri gli eserciti sabaudi impegnati in un così lontano fronte, a dare un significativo impulso allo sviluppo dell’industria conserviera alimentare nel Regno dei Savoia (nel quale era inclusa l’attuale regione Liguria)

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Un pensiero riguardo “Tonnare e saline: una connessione economico-produttiva importante nella storia economica del litorale siciliano.

  • 9 giugno 2013 in 08:34
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    mio nonno, Giuseppe Marceca bottaio di Trapani, si recava ai primi del novecento in Spagna, credo a Valencia,
    a lavorare alla fabbrica dei Parodi per la salatura dei pesci, per alcuni mesi all’anno, potrei avere altre notizie storiche su ciò?
    Conservo in un antico baule, da lui usato come valigia, una foto di una graziosa signorina spagnola.
    Grazie e complimenti per il sito.
    prof Giuseppe Marceca

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