Pantelleria: uno scalo sull’antica rotta d’occidente

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Alla luce di recenti scoperte archeologiche, diversi studiosi hanno avanzato l’ipotesi dell’esistenza di una rotta meridionale, che, a partire dal XIV secolo avanti Cristo, avrebbe collegato il bacino orientale a quello occidentale del Mediterraneo. Questa rotta meridionale, tracciata e percorsa da marinai dell’area levanto-cipriota, avrebbe costeggiato le coste dell’Africa settentrionale per arrivare ai ricchi territori minerari dell’odierna Spagna, in contrapposizione alla già conosciuta e frequentata rotta settentrionale, controllata da genti dell’area egeo-micenea e che costeggiava le attuali coste greche, italiane e francesi.

La rotta meridionale avrebbe usufruito, nel suo lungo percorso, di vari e scaglionati punti di appoggio per le necessarie ed opportune soste; uno di questi punti nevralgici sarebbe coinciso con l’isola di Pantelleria, che inoltre, secondo qualche studioso, avrebbe avuto, unitamente alla Sicilia, anche la strategica funzione di ponte di collegamento con la rotta settentrionale. Infatti la zona del Canale di Sicilia era l’unica dell’intero bacino mediterraneo in cui i tracciati delle due rotte più si sarebbero avvicinati. L’esistenza di questa rotta del sud, oltre a spiegare il successo dell’espansione commerciale dell’ossidiana di Pantelleria, configurerebbe peraltro una sorta di vera e propria precolonizzazione di territori, che, alcuni secoli più tardi, si troveranno lungo la direttrice d’espansione verso Occidente delle genti fenicie. Forse i Fenici non fanno altro che mettere a frutto l’esperienza marinaresca, accumulata e tramandata sulle coste siro-palestinesi in merito alla vecchia rotta. L’ondata della colonizzazione fenicia parte, dalle sue sedi originarie, verso l’XI secolo a. C.. Intorno al 1100 viene fondata Utica e nell’814, secondo le fonti classiche, Cartagine. Più tardi tocca alle isole del Canale di Sicilia: Pantelleria, Malta e Gozo; scelta obbligata per queste tre isole, in quanto le stesse sono funzionali non solo alla rotta commerciale, ma al quadro strategico di un embrionale dominio marittimo del Canale.

Con l’avvento della potenza cartaginese sul mare, assistiamo al fenomeno delle rifondazioni puniche su preesistenti scali fenici, salvaguardando però una certa autonomia. La cosa vale anche per Pantelleria e Malta. Fino alla conquista romana, Pantelleria, pur ricadendo in pieno nella sfera d’influenza punica, batte moneta propria e possiede una flotta da guerra con propri equipaggi.Quando, sul finire dell’VIII secolo a. C., marinai fenici decidono d’insediare un loro scalo stabile in Pantelleria, l’isola è conosciuta da tempo per trovarsi sulla frequentata rotta verso l’estremo misterico mare occidentale, dove sorge la mitica e ricca Tartesso. In quell’epoca Pantelleria è chiamata con il fenicio nome di Yrnm, Yranim o Kyranim (la Cirani o Kirani del greco Erodoto).

E’ proprio ai Fenici, genti marinare per eccellenza, che si deve la prima e valida impostazione del porto di Pantelleria, che, nella sua ossatura essenziale (porto vecchio), è quello che è giunto praticamente ai nostri giorni e che, fin quando le navi sono state, come nel periodo antico e medievale o al tempo dei velieri, di piccola stazza, ha svolto egregiamente la sua funzione e questo per oltre duemilacinquecento anni. Oltre all’essere un ottimo scalo strategico, altri motivi influiscono nella scelta fenicia di farne un approdo stabile. Uno è quello commerciale, infatti l’isola è uno dei pochissimi posti di tutto il Mediterraneo in grado di fornire in abbondanza l’ossidiana, una pietra sempre richiesta per tutto l’evo antico. Anche se ora, a differenza del periodo neolitico nel quale era prodotto di scambio per ricavarne taglienti lame e coltellini, viene commerciato dall’emporio fenicio come bene di lusso per farne collane, monili e ninnoli portafortuna. Altro motivo, non secondario nella mentalità dell’epoca, investe la sfera magico-religiosa.

Nell’isola, fin dai tempi preistorici, sono diffusi i culti, comprendenti forse anche il rito della prostituzione sacra, in onore di una grande dea della fertilità naturale; quest’ultima è per i Fenici, per le molte analogie rituali, non altro che l’ipostasi della loro grande dea dell’amore: Isthar – Astarte. Ed è appunto a questa dea che essi, in un momento successivo al loro insediamento in Pantelleria, consacrano un piccolo santuario nei pressi del lago di Bugeber o Bagno dell’Acqua, conosciuto anche come Lago o Specchio di Venere, forse su un preesistente primitivo luogo di culto alle acque salutifere. Sui reperti archeologici rinvenuti in loco alla fine dell’Ottocento, sia P. Orsi sia A. M. Bisi, che ha condotto un riesame sui reperti quasi un secolo dopo il primo, concordano nel datare il materiale coroplastico più antico ai secoli VII e VI a. C. e l’omogeneità del tema iconografico ripreso: una dea nuda della fecondità, da identificare verosimilmente con la fenicia Isthar. Ambedue sottolineano però l’estrema eterogeneità degli stili delle offerte votive. Si va dallo stile egittizzante al siceliota, dal rodio al moziese, dal fenicio al cartaginese. Una spiegazione a tale apparentemente incomprensibile eterogeneità potrebbe trovarsi nell’ipotizzare la consacrazione del santuario ad Isthar nel suo specifico attributo di Stella del Mattino (Venere) e pertanto nella sua connotazione di protettrice e guida dei marinai durante le perigliose traversate per mare.

Dunque un santuario caro ai marinai di tutte le etnie mediterranee, che, ogni qualvolta approdano nell’isola, portano alla dea, per ringraziamento, la propria caratteristica offerta. Da qui la babele di stili. Nell’isola Isthar diventerà poi, nel tempo punico, Tanit, il cui simbolo verrà perfino impresso sulle monete, e in quello romano Iside, conservando quindi sempre delle peculiarità di divinità marinara. Ma torniamo alla costruzione del porto di Pantelleria da parte dei Fenici.E’ la marineria di questo popolo la prima a sperimentare con successo, per i suoi empori commerciali sparsi nel Mediterraneo, già agli inizi del I Millennio la tecnica della costruzione di porti artificiali con moli, avamporti, bacini di carenaggio; a completamento sempre, s’intende, di favorevoli condizioni naturali della costa.Pantelleria, a differenza di altre isole mediterranee e della non lontana Malta, manca di profonde insenature naturali ottimali per l’installazione di un buon porto. Ciò non sfugge logicamente ai Fenici, che fanno comunque buon viso a cattivo gioco. Ai loro occhi esperti di consumati navigatori l’unico sito in grado di soddisfare, almeno in parte, le condizioni per la costruzione di un porto è l’ampia baia, l’unica dell’isola racchiusa tra Punta San Leonardo e Punta Croce. Purtroppo la baia è squassata, per buona parte dell’anno, dalle violenti tempeste di nord-ovest. Per ovviare a questo vero e proprio castigo di Dio (chi ha visto qualche tempesta di maestrale investire l’isola, sa a che cosa alludo), essi s’industriano sfruttando, genialmente, delle preesistenti scogliere naturali in parte semisommerse.

 

D’altronde la scelta di questo sito è obbligata anche per via delle polle d’acqua, sgorganti nelle immediate vicinanze. Acqua che, seppur fortemente mineralizzata, ha il pregio di essere potabile; il che non è cosa da poco nell’assetata Pantelleria, sprovvista di sorgenti di acqua dolce. L’estensore di queste note, nei primi anni Sessanta, qualche volta ha bevuto di quest’acqua minerale. Ad eccezione del saporaccio amarognolo non certamente gradevole per il palato, non ha altri inconvenienti da segnalare. Né risultano, per concorde testimonianza degli storici locali, danni alla salute di chi, in passato, ne abbia fatto uso abitualmente. Anzi qualcuno ha sostenuto che avesse delle ottime capacità curative per diversi malanni. Queste polle d’acqua sono dette con terminologia derivante dall’arabo bbuvire (da bu’ir = fonte).Un’altra di esse si trova nella caletta di Mursia, vicinissima al preistorico villaggio dei Sesi; segno certo che la costruzione del predetto villaggio fortificato fu senz’altro condizionata dalla presenza di tale sorgiva.

Non secondario deve essere stato poi il motivo che il sito, prescelto dai Fenici per il porto, presentasse un’ampia spiaggia pianeggiante; l’unica dell’isola seppure di ghiaia assai grossolana. Non si deve dimenticare che a quel tempo è consuetudine tirare in secco gli scafi delle navi, anche se la sosta ha la durata di una sola notte.

Da Punta Croce venendo verso Pantelleria centro, la prima scogliera naturale semisommersa che i Fenici incontrano è quella su cui sorgerà in seguito, intorno al 1928, l’attuale molo Nasi, alla cui estremità attraccano oggigiorno i traghetti. Qui i Fenici si limitano a rinforzare con massi artificiali la scogliera, ottenendo così una efficiente barriera frangiflutti contro le mareggiate di nord-ovest. Esso è il braccio esterno di maestrale del costruendo porto fenicio. Immediatamente dopo, e parallela a quest’ultima, altra scogliera naturale semisommersa. Ad essa i Fenici dedicano tutte le loro attenzioni, in quanto sarà l’ossatura portante dell’intero porto: il braccio interno di maestrale. Con una gettata di massi artificiali la scogliera diventa un vero e proprio molo, dalla caratteristica e non causale forma ad Y, con il gambo nascente dalla riva e le due braccia distese a mare a proteggere dai frangenti l’imboccatura del porto. A perenne testimonianza della bravura delle maestranze che lo hanno ideato, ancora oggi, dopo millenni, pur distrutto in buona parte da insensati dragaggi, è segnato sulle carte come scogliera cartaginese.

L’altro braccio del porto, quello di tramontana ( l’attuale molo Adragna, andando verso punta San Leonardo) viene costruito anch’esso su una preesistente scogliera naturale. Qui i Fenici non devono far sforzi eccessivi, essendo questo braccio di tramontana ottimamente ridossato da Punta San Leonardo.Questa l’ossatura del porto fenicio di Pantelleria, che arriva con marginali modifiche fino ai primi anni del Novecento dando sempre buona prova di sé. Quando intorno al 1928 si costruisce il molo Nasi, ignorando di fatto l’indicazione fenicia e pertanto si va in prima linea contro le mareggiate di maestrale, non poche volte quest’ultime divorano letteralmente interi pezzi di molo. Alla cosa si è posto rimedio, in tempi abbastanza recenti, provvedendo con una poderosa gettata di grandi massi artificiali frangiflutti, cosa resa possibile soltanto grazie alle moderne tecniche.

Qualcuno ha avanzato l’ipotesi (il D’Aietti per primo, se non erro, e con solide argomentazioni) che il porto fenicio fosse stato più ampio perché munito anche di un cothon, cioè di un porto militare, indicandone l’ubicazione nell’attuale vasta piazza Cavour. A sostegno che quest’ultimo sito fosse in dominio delle acque, il D’Aietti riporta nel suo libro L’isola di Pantelleria la notizia di uno scavo nel posto che avrebbe portato alla luce un fondo marino. La conformazione dei luoghi rende molto plausibile la cosa. Infatti a quel tempo la futura piazza Cavour, aperta da un lato sul mare, era sovrastata per altri tre lati dalle alture di Maggiuluvedi. Dunque una vera e propria conca, seminvasa dal mare. Pertanto i Fenici con qualche ritocco, e cioè con degli opportuni scavi artificiali, avrebbero ulteriormente influito sulla già naturale predisposizione del sito. Che questo cothon sia realmente esistito, per le cose che andremo tra poco a dire, è più che una semplice ipotesi.

A Pantelleria sembra che i Fenici rispettino tutte le loro regole canoniche per la costruzione di un munito porto, forse perché non dimenticano la preminente rilevanza strategica dell’isola nel Canale di Sicilia. Infatti costruiscono l’immancabile castello a mare, inglobante al suo interno anche una bbuvira o sorgiva, a difesa delle opere portuali. Esso sorge sul posto dell’odierno castello, frutto quest’ultimo di una congerìa di ricostruzioni, rifacimenti, ampliamenti, in quanto ci mettono le mani un po’ tutti dai Bizantini agli Arabi, dagli Svevi agli Spagnoli. Ma il nucleo primigenio è fenicio, tanto che sia l’Orsi che il D’Aietti hanno riscontrato pezzi di mura punico-fenicie inglobati nei bastioni e precisamente nella cortina sud e nella cortina a mare. L’ossatura centrale del castello dell’epoca arcaica persisterà dunque nel tempo, già Plinio il Vecchio scriveva Cossura cum oppido, cioè Pantelleria con fortificazioni.La posizione del castello, rispetto all’impianto complessivo del porto, è apparentemente eccentrica, tutto però ridiventa più razionale e logico appena si ipotizza l’esistenza del cothon. La fortificazione viene a trovarsi esattamente a guardia della sua imboccatura. E’ questo uno schema canonico che ricalca, nelle linee fondamentali, quello del porto della lontana Sidone. Con il cothon di Pantelleria (dati presumibili delle dimensioni interne: 120 metri per 75 metri) siamo di fronte ad un vero e proprio porto militare, a differenza di quello coevo di Mozia (51 metri per 30 metri) che è soltanto un grande bacino di carenaggio.

Ad un formidabile sistema portuale così ipotizzato avrebbe dovuto corrispondere, almeno per il tempo punico, una marineria da guerra degna di questo nome. Le fonti storiche effettivamente confermano, per quel periodo, la presenza di una flotta da guerra cossyrese (da Cossyra, altro nome antico di Pantelleria) nelle acque del Canale di Sicilia, collegata alla flotta cartaginese nel tentativo di contrastare il crescente espansionismo di Roma. Ulteriore conferma poi, se ce ne fosse bisogno, il ritrovamento del coevo relitto della cosìdetta nave di Marsala, zavorrata con pietrame risultato, dopo accurati esami chimico-geologici, tipico di Pantelleria e quindi presumibilmente varata dai cantieri della stessa isola.

L’autore

Orazio Ferrara (1948), scrittore e saggista, ha pubblicato i volumi “Parole sudiste, d’amore e altre ancora” (1978), “Storie Sarnesi” (1993), “Paputi un mito antico” (1994), “Arcaiche radici e diafane presenze” (1995), “Un capitano d’industria nella Valle del Sarno” (1995), “Il mito negato” (1996), “Sarno guida alla città” (1996, con altri autori), “Viva ‘o Rre. Episodi dimenticati della borbonica guerra per bande” (1997, vincitore 2° posto saggistica politica del Premio Internazionale Letterario Tito Casini di Firenze Ed. 1997), “Il Celeste Patrono della Gente di Mare. San Francesco da Paola” (1997), “L’antica terra murata della città di Sarno: San Matteo” (1998), “I Signori del mare. Appunti per una storia delle antiche marinerie” (1998). E’ redattore dei periodici locali La Voce ed Eventi, collabora a diverse riviste e giornali, tra cui L’Alfiere e la bilingue Santini & Similia. Dirige il Centro Studi di Storia, Archeologia e Araldica I Diòscuri.

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