L’ultimo croupier del pesce

Print

Chi giunge a Mazara, primo porto peschereccio del Mediterraneo, stenta a trovare il mercato del pesce al minuto e ancor di più quello all’ingrosso. A fronte di una dimensione industriale dell’impresa della pesca, sol che si consideri il livello di tecnologia e il numero dei natanti in armamento, la marineria mazarese presenta non poche disfunzioni e inadeguatezze nell’organizzazione a terra delle operazioni di mediazione commerciale e di valorizzazione del pescato, non meno che nell’efficienza dei sistemi di controllo e dei servizi anche per mancanza di infrastrutture portuali.

Marginale è il ruolo svolto dal mercato locale all’ingrosso. La struttura è funzionalmente inidonea, sprovvista di spazi disponibili e di celle frigorifere. Il progetto di costruzione del nuovo impianto è fermo più per la debole volontà degli operatori commerciali che per le storiche inerzie amministrative. Attualmente, all’interno del mercato all’asta, l’unico controllo esercitato sul pescato è quello sanitario, reso obbligatorio dalle disposizioni della Comunità Europea e garantito dalla presenza di un veterinario. Nessun altro tipo di vigilanza pubblica disciplina l’attività di compravendita. Nessuna delle norme fissate dal Regolamento trova applicazione. Tutto sembra essere affidato alla libera e spontanea iniziativa degli operatori privati, che si introducono nei locali del pubblico mercato per negoziare le transazioni senza dover pagare alcun diritto all’ente comunale. L’astatore non è più nominato o segnalato dal direttore o dall’amministrazione ma è direttamente scelto da chi vende e da questi pagato “a merito”. Le contrattazioni si risolvono “alla mano”, senza registrazione né fatturazione. Sono gli stessi produttori a suonare la sirena che segnala l’apertura dell’asta.

Il mercato è, dunque, diventato, per certi aspetti, un simulacro, un luogo pubblico privatizzato e spogliato di funzioni istituzionali. Le operazioni di negoziazione eludono le regole fissate dalla comunità e rispettano logiche autoreferenziali, più prossime al baratto che alla transazione monetaria, se si considera la forte personalizzazione delle relazioni tra soggetti, l’assoluta mancanza di osservatori esterni, il carattere di autogestione di tutta l’attività commerciale che si regge sul difficile e precario equilibrio della reciprocità di interessi. In questa sorta di bazar la domanda e l’offerta si incontrano e, a volte, confliggono in un regime di grande disordine e di straordinaria mobilità. A differenza che a San Benedetto del Tronto o a Chioggia dove i mercati ittici all’ingrosso hanno forma di anfiteatro con la platea di acquirenti che se ne sta seduta come sugli scanni di un parlamento, qui gli operatori sono confusamente addensati, in piedi, in un locale poco luminoso e su una superficie assai ridotta. Le cassette di pesce non scorrono su nastri trasportatori meccanici né l’asta è comandata da congegni elettronici da digitare. L’angusto spazio disponibile all’interno di questo ambiente promiscuo accentua la fisicità dei rapporti faccia a faccia, gli elementi di violenza e di frastuono, la teatralità essenziale dei gesti e dei linguaggi. A separare chi vende e chi compra sono transenne simboliche, confini molto labili. In assenza di direttore, di scritturali e di rappresentanti dell’ordine pubblico, il mercato all’asta sembra riproporre in forme elementari il senso antropologico del negoziare, le dinamiche sociali e culturali del gioco economico, la composizione delle controversie e la loro ritualizzazione in un sistema condiviso di codice verbali e non verbali.

 

 

Quanto più autorevolezza e carisma l’astatore possiede, tanto più le transazioni appariranno strutturate in una sorta di rito collettivo, in un istituto culturale formalizzato. Arbitro indiscusso che appartiene alla stessa società marinara e che di essa si considera attento e saggio mediatore, il banditore del mercato è una figura assimilabile a quella del rais delle tonnare, per il prestigio di cui gode e per le competenze che presuppone. Si diventa astatore solo guadagnandosi la fiducia e il rispetto dei clienti. I suoi gesti sono ieratici e le sue decisioni solenni e incontestabili. Vito Asaro, detto Piantala, è senza dubbio il più conosciuto tra i banditori mazaresi e, a 77 anni, continua a lavorare dentro e fuori il mercato ittico. Ha cominciato nel 1960, quando si iscrisse all’albo degli astatori presso la Camera di Commercio di Trapani e diventò la “quarta bilancia”, occupò cioè l’ultimo dei “posteggi” di vendita di cui era allora dotata l’asta locale. Scalò nello spazio di pochi anni i gradini della gerarchia che lo separavano dalla “prima bilancia”, essendo stato promosso a primo astatore al posto dell’anziano Ignazio Gancitano, meglio noto come l’abbanniaturi, in attività dal lontano 1935. Si riconosceva al conduttore che occupava questa posizione una speciale maestria nelle tecniche dell’incanto, un’esperienza professionale che gli assicurava il privilegio di stabilire un rapporto di stretta collaborazione con il direttore del mercato, di cui diventava il portavoce ufficiale, lo speaker dei comunicati e degli avvisi pubblici.

 

 

Un marcato spirito agonistico e antagonistico ha sempre caratterizzato i rapporti tra i banditori collocati nei diversi “posteggi” di vendita. Le contrattazioni simultanee e parallele simulavano una gara, si convertivano in una competizione dai toni spesso accesi, un confronto serrato di grida, di richiami, di performance. A vincere questa sfida era il conduttore che riusciva a prolungare al massimo il tempo dell’asta e a piazzare il prodotto a prezzo più elevato. L’arte dell’astatore consiste –a giudizio dello stesso Vito Asaro- nel vendere anche quello che non c’è, nell’abbanniari aragoste anche quando non ce ne sono, nell’inventare un rialzo e nel fingere una richiesta inesistente solo per “dare una spinta” all’asta. Il banditore esperto chiama per nome e per soprannome il rigattiere, lo indica in mezzo alla calca, lo sollecita a intervenire nelle trattative anche quando questi si intrattiene presso un’altra bilancia concorrente. La conoscenza e la lunga consuetudine con ciascuno di essi, con le loro personali vicende favoriscono l’approccio confidenziale, la battuta ironica, l’invito accattivante. La tattica per attirare i commercianti si misura soprattutto sulla determinazione del prezzo di base, che funziona da esca come per i pesci: se troppo elevato scoraggia e allontana l’acquirente; al contrario se eccessivamente basso svaluta il prodotto e fa perdere la fiducia del venditore. Abbassare l’importo dopo averlo fissato come base d’asta per incoraggiare le offerte che tardano ad esprimersi è considerata una disdicevole sconfitta per il banditore.

 

 

Muovendosi entro gli spazi di una duttile e sapiente equidistanza, nel tentativo di conciliare in un ragionevole equilibrio gli interessi del venditore e quelli dell’acquirente, il conduttore dell’asta è il grande tessitore delle transazioni, l’animatore della partita, il trait d’union in carne e ossa della domanda e dell’offerta. Con questa consapevolezza egli è chiamato ad aggiustare i contenziosi, a assumere la funzione di paciere, a volte, anche fuori del mercato, a dimostrare sempre equanimità di giudizio e tempestività nella soluzione dei problemi. Egli sa che deve guadagnarsi la complicità dei commercianti senza tuttavia tradire le attese dei produttori. Vito Asaro tiene a sottolineare che non si è mai fatto pagare da alcun rigattiere perché sarebbe stato come dichiarare di averlo favorito. Se le controversie sono inevitabili nel corso di un processo di negoziazione, saranno tanto più violente e insanabili quanto più debole sarà il ruolo di interdizione e di intermediazione del banditore, l’affidabilità del suo arbitrato, la sua credibilità non solo professionale ma anche umana.

Signore del gioco come uno scaltrito croupier, l’astatore prima di avviare le trattative affonda la sua mano furtiva nella cassetta dei pesci che è in procinto di mettere all’asta, ne prende uno, mai a caso, e lo getta con distacco nella sua cesta, posta ai suoi piedi: l’insieme di questi sistematici prelievi rappresenterà la muccigghia, il piccolo fagotto in natura, una manata di pesci che si porta a casa in aggiunta al compenso in denaro che gli deve il venditore. L’asta si apre con il prezzo che il conduttore ripete tante volte finché non riceve un cenno di rialzo: un dito appena mosso, un sopracciglio inarcato, una strizzata d’occhio. L’iterazione dell’importo è modulata su una struttura melodica, un movimento cantilenante, una particolare inflessione della voce che ricorda la conta dei tonni arpionati eseguita dai tonnaroti e si accompagna ad una precisa postura: gambe leggermente divaricate, busto e collo eretto, capo rivolto in alto e in continua semirotazione, braccia in evoluzione. Il corpo ha, in tutta evidenza, un’efficacia comunicativa strettamente correlata all’articolazione del messaggio e al profilo melodico delle grida: il banditore indaga con gli occhi gli astanti, gira lo sguardo rapidamente, tende ad imporsi con ogni espediente e azione scenica. Punta dapprima l’indice della mano destra sulla partita di pesce di cui fissa il prezzo di base e poi lo dirige su quanti partecipano via via all’asta.

 

 

Dentro le spaselle, le tradizionali cassette di abete a sponde basse, i merluzzi o le spigole sono sistemati in bell’ordine con la bocca verso l’alto, stretti e inclinati su un lato, così da rendere visibili la specie, la taglia e la qualità. Per il loro trasporto all’interno del mercato sono ancora parzialmente utilizzati dei carrettini tirati a mano, più spesso grandi carrelli gommati. A volte, svolge il lavoro di facchino qualche lavoratore tunisino. La bilancia accanto alla quale il conduttore dirige l’asta serve più da piano di supporto alla cassetta dei pesci da mettere all’incanto che da strumento di misura del peso. Non è, infatti, il valore ponderale a determinare i prezzi quanto il contenuto di ciascuna spasella. Il banditore apre di solito la gara con l’indicazione del nome della barca da cui proviene il pescato in vendita. Profondo conoscitore delle diverse famiglie dei pesci, egli offre all’incanto per primi i prodotti di maggior pregio e poi via via quelli “di seconda”, “di terza” categoria e infine il cosiddetto mazzami: mistura di pesci da frittura, di menole (spicareddi), boghe (vopi), sgombri (scurmi), ritunnu, mazzamurra (tritume). Quando nella gara percepisce che non ci saranno più rialzi chiude la contrattazione con l’espressione: “mollo”, che è anche l’ultimo avviso per i rigattieri concorrenti ma anche per il venditore che voglia intervenire a bloccare l’asta qualora ritenesse non congruente il prezzo di cessione. Si consideri, infine, che nell’aggiudicare la cassetta si abbatte la quotazione dell’ultima offerta e si fissa la vendita all’importo della precedente battuta.

Fino a qualche anno fa le aste condotte presso il mercato erano due: la prima alle cinque del mattino, la seconda alle cinque del pomeriggio. Le bilance in attività era due. Vi transitava il pescato di non meno di cinquanta imbarcazioni, una piccola parte della grande flotta locale, quella impegnata nella pesca costiera. Oggi l’unica asta che si svolge alle ore quindici, nei modi già descritti, suscita una penosa sensazione in quanti conservano ancora nella memoria le precedenti esperienze di compravendita. Non più di una diecina sono le barche che tengono in vita il mercato all’incanto. Non sono battute più di un centinaio di cassette di pesce al giorno: una quantità risibile in rapporto alla produzione complessiva dell’industria peschereccia.

 

La stessa varietà delle specie ittiche è abbastanza limitata e modesta. Vi giunge il pescato delle piccole imbarcazioni che si spingono a poche miglia dalla costa: sono prevalentemente pesci di rrocca (raia, scorfani), di fangu (calamaretti, piccoli merluzzi, mollami), di bbancu (pesce san Pietro o addru, tracina, cipuddri, carrubbari, runchi, pisci di broru), a volte compaiono le triglie rosse di scoglio o quelle bianche che i mazaresi usano chiamare “con i baffi” catturate nei fondali sabbiosi. Ad animare l’asta, condotta su una sola bilancia, sono i piccoli rigattieri locali, alcuni commercianti che comprano per conto terzi e i grossisti palermitani. Sono questi ultimi a condizionare il mercato in modo determinante. Sono loro, di solito, ad aggiudicarsi le partite di pesce più pregiato. Tanto più che l’astatore regola i prezzi delle cassette anche in base alla loro presenza. A differenza che nel passato, per le condizioni di libero accesso all’asta, oggi vi partecipano anche privati cittadini che preferiscono acquistare all’ingrosso piuttosto che al dettaglio.

Fuori da un mercato così povero e così lontano dalla realtà produttiva della pesca locale sono disseminati nella stessa area della Marina centinaia di altri piccoli e grandi mercati, improvvisati e clandestini, diurni e notturni, quelli che spontaneamente si formano sull’umido calpestio delle banchine ai margini degli stessi pescherecci appena attraccati e quelli che si organizzano nel cuore della notte negli slarghi del vecchio molo o del nuovo porto all’arrivo dei camion frigoriferi provenienti da Porto Empedocle. Proliferano poi altri periferici e anomali micromercati, la cui gestione si colloca negli interstizi di un’economia parcellizzata, di una Marina che somiglia ad un puzzle con tessere troppo differenti per prefigurare un disegno intelligibile. Se il mercato non esiste più è anche perché il mercato è ovunque. Piccoli furgoni, palchetti mobili e bagagliai di auto si trasformano in botteghe ambulanti e bancarelle più o meno stabili in punti strategici della città. La loro collocazione è sovente oggetto di contenziosi e di tensioni tra gli stessi rigattieri. Gli immigrati stranieri sono protagonisti di altri circuiti commerciali paralleli. Pescatori tunisini rivendono ad altri mediatori, italiani e connazionali, quella piccola parte del pescato (la gghiotta) che hanno ricevuto dall’armatore al momento dello sbarco come compenso aggiuntivo alla paga. Un reticolo di mercati è, dunque, alimentato dalla commercializzazione delle stesse regalie, un arcipelago di transazioni minute, di vendite a domicilio, di informali intermediazioni a catena, di espedienti infiniti ed eterogenei di quell’arte dell’arrangiarsi che la precarietà e la sussistenza hanno insegnato a praticare.

Altrove è, tuttavia, il vero mercato, quello che per volume e giro d’affari corrisponde alla potenza economica espressa dalla marineria mazarese. L’eco di questo commercio non giunge nelle banchine della Marina, non provoca rumore, non compare né si percepisce. E’ un mercato volatile, incolore e inodore. Oggi, – ci dice l’anziano banditore, Vito Asaro – l’armatore è sempre più spesso il vero astatore. E’ lui che compulsando in rete per via internet i grandi commercianti o contattandoli col cellulare ne verifica l’offerta e aggiudica al migliore offerente la partita, ovvero la bordata, il pescato equivalente a circa dieci giorni di lavoro di un peschereccio. L’operazione è compiuta quando ancora il prodotto non sbarcato né smistato si trova nei congelatori del peschereccio. La sua commercializzazione si svolge fuori da qualsiasi luogo canonico di contrattazione e di controllo, lontano dalla piazza e dalle vecchie mura del mercato ittico ufficiale, lungo le strade evanescenti ed invisibili del ciberspazio. Il pesce catturato tra le maglie delle reti dei pescatori continua, dunque, a nuotare su altri mari meno appariscenti e più effimeri.

Se, da una parte, il mercato tradizionale si è come polverizzato in un pulviscolo di punti vendita, quasi tutti artigianali o irregolari, dall’altra, quello virtuale di oggi non sembra, a guardar bene, meno arcaico e anacronistico dato che non aderisce alle regole della trasparenza e della concorrenza, restando più vicino ad un sistema ancora paleoindustriale piuttosto che a quello postmoderno. L’indeterminatezza del pescato e del reddito prodotto, ribadita dalla assoluta mancanza di dati statistici attendibili, ha reso possibili speculazioni, monopoli e fenomeni di racket che in anni non lontani la cronaca giudiziaria si è incaricata di segnalare. Questa situazione fa dire ai pescatori che nella fase della commercializzazione “funnu un si nni trova”, (letteralmente “fondo non se ne trova”), espressione, mutuata dal linguaggio marinaro, quanto mai felice per denunciare l’ampio spazio di manovra dell’armatore e la scarsa limpidezza nelle sue relazioni con il grossista. Se è vero, infatti, che oggi il proprietario del motopeschereccio conduce l’asta personalmente, seppure a distanza, è anche vero tuttavia che è il grossista, colui che tende a monopolizzare l’incetta dei pesci più pregiati, a “fare” davvero il mercato.

 

La gestione e l’egemonia dei più cospicui flussi finanziari ricavati dai profitti della pesca sono, di fatto, nelle mani di questi Grandi Rigattieri, che con un semplice input telematico comprano e rivendono, smistando il pescato presso i commissionari dislocati nei punti più diversi di un’amplissima rete di distribuzione. L’elusione e l’evasione fiscale, praticate grazie all’occultamento di larga parte dei beni prodotti, tengono insieme nel perfetto equilibrio della reciproca convenienza armatori e commercianti, un’alleanza strategica su cui si regge lo status quo di una marineria tecnologicamente avanzata ed economicamente mutilata. L’enorme ricchezza drenata dal mare, reinvestita solo in piccola parte nel processo produttivo, non è equamente distribuita e rimane patrimonio di gruppi sociali ristretti. La terza grande forza della marina mazarese non sono nemmeno i produttori ma gli autisti, un centinaio circa di addetti al trasporto del pescato verso i più lontani mercati di consumo.

Le strozzature dei circuiti di commercializzazione sono l’effetto probabilmente più eclatante di questa realtà distorta. I processi di modernizzazione che hanno interessato i sistemi di strumentazione di bordo non hanno migliorato i meccanismi di monitoraggio dello stato delle risorse ittiche né hanno promosso una politica di valorizzazione sul mercato dei prodotti quali le triglie e i gamberi che potrebbero conquistare il diritto ad una certificazione d’origine. La grande capitale della pesca sembra, in verità, soffrire di una radicata e rovinosa schizofrenia: da un lato è impegnata a moltiplicare la potenza dei natanti in mare e il loro sforzo di cattura; dall’altro non riesce a coordinare produzione e commercializzazione, organizzando a terra circuiti funzionali di smistamento e distribuzione, tecnologie adeguate, e soprattutto mercati con impianti meccanizzati e soggetti che vi partecipano secondo le regole della libera e aperta concorrenza. Queste discrasie hanno finito paradossalmente col rendere quasi invisibile agli stessi cittadini quel pesce che arrivando sulle tavole di tutti gli italiani rappresenta il vanto della città.

L’autore

Antonino Cusumano collabora con l’Istituto di Scienze antropologiche e geografiche della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo. Ha promosso e curato, negli anni 1976-78, la raccolta dei materiali facenti parte del Museo della vita e del lavoro contadino di Campobello di Mazara e dal 1980 al 1984 è stato direttore onorario del Museo etnoantropologico della Valle del Belice di Gibellina. Ha condotto ricerche su temi e aspetti della cultura materiale folklorica e sull’arte popolare in Sicilia. Attualmente è componente del Comitato di redazione dell’Archivio Antropologico Mediterraneo, rivista diretta da Antonino Buttitta. Ha pubblicato, tra gli altri, i volumi: Il ritorno infelice. I tunisini in Sicilia (1976); Le forme del lavoro. Mestieri tradizionali in Sicilia (1986); La terra e il fuoco. Ceramica popolare della Valle del Belice (1991); Pane e festa. Tradizioni in Sicilia (1991); Orditi e trame della natura. Sull’intrecciatura vegetale (1993), La strada maestra. Memoria di Gibellina (1997); Madre Pietra. Arte e tecnica del costruire a Salemi (1998). E’ autore di numerosi cataloghi di mostre, pubblicati a cura dell’Associazione per la conservazione delle Tradizioni Popolari di Palermo e del Servizio Museografico dell’Università di Palermo. Suoi contributi sono apparsi in varie riviste specializzate e nei volumi collettivi: Cultura materiale in Sicilia, Atti del I congresso internazionale di studi antropologici siciliani (1980); I Mestieri. Organizzazione, tecniche, linguaggi, Atti del II Congresso internazionale di studi antropologici siciliani (1984); I colori del sole (1986); Le feste di Pasqua in Sicilia (1990); Il pane (1992); Arte popolare in Sicilia (1992); Lo Zingaro. Un laboratorio di storia nella natura (1993). E’ attualmente impegnato, insieme a Rosario Lentini, nella cura e nel coordinamento di un volume su Mazara del Vallo tra Ottocento e Novecento.

Print

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

*