Appunti sui primi tempi della subacquea a Ferrara

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di Andrea Cavallari. La provincia di Ferrara è in assoluto la più piatta d’Italia ed ha il paese situato più in basso: Contane (comune di Iolanda di Savoia) a 4 metri sotto il livello del mare. Ciò ha fatto sì che molti ferraresi anelino ai monti ed il CAI di Ferrara abbia più di mille iscritti. Da un archeologo dell’Università di Ferrara (Antonio Guerreschi) partì lo straordinario progetto “Terre alte” per lo studio dei segni dell’uomo sui monti più alti.

Il mare invece c’è ma si tratta di un mare molto particolare: non solo è fatto tutto da coste basse e sabbiose con ampie lagune all’interno della linea costiera ma si trova fra le due foci del Po e del Reno. Ciò porta a correnti strane e discontinue e a modifiche, anche notevoli, dei fondali. Ho trovato condizioni impossibili in altri mari: uno strato di acqua fredda in superficie ed uno di acqua calda alcuni metri sotto ma, dato che le acque del Po non si mescolano istantaneamente con quelle del mare, l’acqua fredda era dolce e pesava meno dell’acqua salata calda.

Quando, da bambino, feci per la prima volta il bagno nel Tirreno dissi: “Qui l’acqua è più salata” e tutti mi presero in giro dicendo che il mare è salato uguale dovunque ma ciò per il ferrarese non vale.

Si tratta di acque solitamente tranquille da navigare ma che possono diventare molto pericolose da percorrere specie quando soffia il garbino (come è chiamato il libeccio nell’alto Adriatico) che spinge le navi ad arenarsi sui bassi fondali dove la furia delle onde le distruggono in breve tempo.

Ovviamente il pericolo era molto più grande quando le navi non erano in grado di stringere molto il vento e riguadagnare il largo. Già gli antichi romani e forse anche gli Etruschi avevano scavato canali per collegare le varie paludi ed evitare il più possibile il tratto di mare. Fin dal XVI secolo esisteva un servizio passeggeri fra Bologna e Venezia che si svolgeva interamente per acque interne e quando, nel 1601, fu scavato il canale, successivamente chiamato Panfilio, che univa Ferrara a Pontelagoscuro anche le merci seguirono questo itinerario.

Oggi il pericolo è quasi scomparso ma non del tutto. Infatti, in questa zona, non vi sono porti dall’accesso comodo, si tratta sempre di canali che sfociano in mare ai quali sono stati aggiunti due lunghi moli che si protendono in mare per cui l’ingresso al porto è sempre molto angusto ed una volta entrati bisogna percorrere un bel tratto del canale prima di essere al sicuro e poter attraccare dato che i moli sono sono spazzati dalle onde ed una grossa onda entra direttamente nel canale e lo percorre a lungo prima di esaurirsi.

Una mia ex-collega, grande appassionata di vela, che ha attraversato l’Atlantico e che fu skipper dell’equipaggio tutto femminile che partecipò ad una delle prime edizioni del Giro d’Italia a vela, una volta mi disse che la cosa più difficile che aveva fatto era stata entrare a vela con andatura a farfalla in uno di questi porti in mezzo alla burrasca e col motore in avaria. Non aveva certo torto: proprio nel 2017 sono morti, schiantandosi sui frangiflutti di Rimini, quattro velisti salpati da Marina di Ravenna e diretti a Trapani. Avevano avuto un’avaria al motore e stavano tentando di entrare nel porto a vela ma, nonostante fossero guidati da uno skipper molto esperto, avevano scuffiato all’ingresso del porto.

Anche con il mare calmo però questa zona non è tranquilla come sembra e sono molti i velisti che passando a molte miglia al largo delle foci del Po con il pilota automatico e facendo poca attenzione allo scandaglio, con loro grande sorpresa, si sono trovati improvvisamente arenati su dei bassi fondali che, fino a qualche giorno prima, non c’erano.

Se questo mare non è di grande interesse per i velisti (che tra l’altro non hanno isole da raggiungere se non le lontane coste della Croazia) ancora meno lo è per i subacquei. Infatti la vicinanza della foci dei fiumi fa sì che la visibilità sott’acqua sia sempre scarsa e molto spesso nulla. Inoltre, specie nei primi tempi, si andava sott’acqua per cacciare il pesce e qui i pesci vivono in acqua libera non avendo alcuna tana se non le poche formate dei massi delle dighe frangiflutti.

Nonostante ciò sono stati parecchi i ferraresi ai quali è venuta la passione per la subacquea ed alcuni di loro hanno fatto cose interessanti mentre altri ne hanno fatto addirittura il loro lavoro, sempre molto duro e difficile. Lo hanno dovuto fare in mari lontani e c’è stato anche chi ha fatto il corallaro, mestiere, oltre che duro, anche molto pericoloso. Lo si è fatto nel lontano Marocco ma anche in luoghi che, se pur più vicini geograficamente, sono più remoti del Marocco: mi riferisco al banco Scherchi che la stragrande maggioranza delle persone (ed anche dei velisti) non ha mai sentito nominare.

Il fondatore e l’organizzatore del Gruppo Subacqueo Ferrarese fu il dott. Giordano Bonfanti che lo fondò, il 26 giugno 1964, dopo aver partecipato ad un corso di specializzazione medico-sportiva presso il Centro Federale di Nervi diretto da Duilio Marcante, il pioniere dell’attività subacquea in Italia.
Il dott. Bonfanti fu il Presidente del Gruppo Subacqueo Ferrarese fino al novembre 1969; a quella riunione parteciparono anche Gabriele Covi (che fu eletto vicepresidente), Govoni, Pettini e Neri (segretario). Nei primi tempi la sede del gruppo era presso casa sua e gli appassionati che lo seguivano piuttosto pochi. Mi ricordo un certo Balboni, che aveva circa l’età di Bonfanti. Nel 1964, 1965 e 1966 furono organizzati i primi corsi subacquei che si volgevano nella piscina del Dancing Diana a San Martino, a nove chilometri da Ferrara, dato che quella era l’unica piscina adatta per l’allenamento dei subacquei. Gli esami però si svolgevano a Nervi con Duilio Marcante in persona come esaminatore. Non so i nomi di tutti quei subacquei ma ho conosciuto alcuni di loro e ne parlo più avanti.

Non so cosa abbia spinto gli altri ferraresi a scegliere, come loro passione, un campo così strano come la subacquea ma ho cercato di capire cosa abbia spinto me e quando nel mio sito, ho pubblicato una pagina [www.andreacavallari.it/Biografia/Biografia8a.htm] che raccontava le mie attività subacquee, ho cercato di spiegarlo.

Ecco quello che ho scritto:

“Mi sono sempre chiesto a quando risalga la mia passione per il mondo subacqueo e cosa l’abbia scatenata ma non sono in grado di rispondere a questa domanda. Per quel che mi ricordo sono sempre stato attirato da tutto quello che aveva a che fare col mondo sottomarino.

Sicuramente vi sono stati più fattori che hanno fatto nascere questa passione. Uno è stata la visione al cinema di un bel documentario subacqueo del quale ricordavo una scena iniziale dove una stampa antica rappresentante una nave si trasforma in una nave reale.

Non sapevo se il documentario in questione fosse Sesto continente di Folco Quilici che è del 1954 o Il mondo del silenzio di Jacques Costeau che è del 1956. Recentemente ho rivisto questo secondo film ed ho constatato che era proprio questo il documentario che avevo visto tanti anni fa in prima visione in quanto, non solo c’è la scena col quadretto che cambia in una nave vera, ma anche altre scene che mi ricordavo, come quella del grosso pesce diventato tanto domestico da mettersi davanti ogni volta che si voleva fotografare qualcos’altro.

Però non può essere stata la visione di un unico film a scatenare la mia passione. Infatti, nel 1955, avevo visto anche il film Italia K2, sulla conquista del K2 avvenuta l’anno precedente, che mi era piaciuto moltissimo ma il tutto si era risolto in una serata di arrampicate allo schienale del divano e non aveva fatto nascere una grande passione.

Quando, bambino a Rimini, vedevo i miei cugini modenesi, più grandi di me, arrivare sul fondo dove non si toccava e raccogliere quelle stelle marine che io potevo trovare a riva solo dopo una mareggiata, provavo sicuramente il desiderio di imitarli ma alla nascita della mia passione devono aver contribuito anche le figurine dell’album Caccia subacquea che la Ferrero, dal 1955, attaccava ai suoi Cremini che erano dei parallelepipedi di pasta di cioccolata e le pagine de Il mondo in cui viviamo che erano una serie di inserti pubblicati, nel 1955, dal settimanale Epoca che li aveva ripresi da Life.

Successivamente ci sono state le imprese del batiscafo Trieste che mi hanno esaltato e che venivano raccontate nel Corriere dei Piccoli che allora leggevo regolarmente (si veda ad esempio l’articolo Gli uomini dell’abisso nel numero del 3 gennaio 1960) [ci fu anche un interessante articolo su Duilio Marcante e sul corso che stava facendo con lui il noto presentatore Mike Bongiorno che apparve sul numero del primo agosto 1963 del giornalino “Selezione dei ragazzi”].

Quando a scuola veniva chiesto di fare un disegno su un soggetto di propria scelta, sceglievo immancabilmente di disegnare il fondo del mare con pesci alquanto improbabili e l’immancabile batiscafo Trieste.

Una volta (ma lavorando a casa ed impiegandoci molto tempo) avevo anche riprodotto a tempera la copertina dall’album Caccia subacquea che rappresentava un sub che, con il coltello in mano, affrontava uno squalo.

Nel 1963 avevo comprato un paio di pinne Alcione della Pirelli che mi sono poi durate tantissimi anni [fino al 1998, anche se, dato che sono molto tenere, le usavo solo per fare il bagno in quanto per andare sott’acqua usavo delle Rondine lunghe], ma è stato l’anno successivo che ho cominciato ad usarle molto e a nuotare dovunque. Poi, nel 1965 e 1966, quando eravamo al mare al Lido degli Estensi al bagno Astra che si trova circa a metà strada fra il porto ed il canale Logonovo, tutti i giorni mi facevo una lunghissima nuotata: il primo anno fino al porto e ritorno ed il secondo fino al porto e poi dal porto al Logonovo e ritorno.

Nel 1967 ero quindi in gran forma e quando ho visto i manifesti che annunciavano che erano aperte le iscrizioni al IV Corso organizzato dal Gruppo Subacqueo Ferrarese per il conseguimento del brevetto per l’uso di autorespiratori ho subito provato il desiderio di parteciparvi.

Dopo aver convinto i miei a darmi il permesso, mi sono iscritto al corso che sarebbe durato tutta l’estate con lezioni teoriche e pratiche. La parte pratica si sarebbe svolta presso la piscina del Dancing Diana , per una durata di due ore, nel tardo pomeriggio di tutti giorni della settimana e poi anche alla domenica mattina per quattro ore.

Si trattava quindi di un grosso impegno, ben diverso dai corsi di pochi giorni che fanno ora molti turisti alle Maldive o a Sharm er Sheik e per me era un impegno ancora più grosso perché, non avendo né la patente (ero ancora diciassettenne), né il motorino mi sarei dovuto recare alla piscina in bicicletta a nove chilometri da Ferrara,.

Benché nominalmente il corso servisse ad insegnare l’uso dell’autorespiratore, il suo vero obiettivo era l’acquaticità e cioè non solo sentirsi in acqua come a casa propria ma soprattutto acquisire degli automatismi che portassero, in caso di pericolo, a fare quello che è giusto e non quello che, secondo il normale buon senso, sembrerebbe giusto a chi se ne stia sulla terraferma.

Per fare un esempio racconto un episodio accadutomi a Capraia nel 1977. Avevo un bibombola semiscarico e volevo finire l’aria che conteneva per cui mi sono immerso rimanendo entro la curva di sicurezza (22 metri) per non avere problemi di decompressione. La mia intenzione era di finire l’aria ed inserire poi la riserva ed iniziare la risalita sfruttando l’aria della riserva. Invece, quando l’aria è finita ed ho cercato di inserire la riserva, ho scoperto che, avendo urtato la bacchetta che comandava la riserva in una roccia, la riserva si era già inserita da sola e l’avevo consumata tutta per cui ero senza aria. Si noti che, dato che per emettere l’aria dei polmoni non ci sono ostacoli, ci si accorge di ciò solo quando si hanno i polmoni vuoti e cercando di aspirare aria dall’erogatore, si scopre che non ne viene più. La normale logica spingerebbe a risalire il più veloce possibile trattenendo la poca aria che si ha nei polmoni ma ciò sarebbe sbagliatissimo perché una risalita troppo veloce può essere pericolosa anche in curva di sicurezza, perché l’agitazione ed i movimenti bruschi fanno consumare più ossigeno e perché risalendo l’aria nei polmoni si dilata e se trattenuta, provoca una sovradistensione polmonare che, alla lunga, può portare all’enfisema. La cosa giusta da fare è quindi risalire con molta lentezza ed in tutta calma emettendo pian piano la poca aria che si ha nei polmoni (e così ho fatto). Non è però sufficiente sapere che si fa così perché, in caso di pericolo, ci si dimentica tutto, ma bisogna che si faccia ciò in quanto lo si sente come naturale e questa è appunto l’acquaticità.

In effetti per un po’ di tempo il corso fu frequentato anche da una ragazza che faceva la paracadutista e che non aveva alcun interesse a diventare subacquea ma che voleva acquisire l’acquaticità necessaria a togliersi d’impaccio se nel corso di un lancio fosse caduta in acqua perché, qualche tempo prima, in America un gruppo di paracadutisti era stato spinto dal vento sulle acque di un lago e molti erano miseramente affogati non essendo riusciti a liberarsi rapidamente del paracadute e delle sue corde.

Il corso non aveva una validità ufficiale in quanto allora non vi erano leggi che regolamentassero le attività subacquee, tant’è che per poter organizzare gare ed essere riconosciuti dal CONI i gruppi che facevano gare, corsi ed altre attività subacquee erano iscritti alla FIPS (Federazione Italiana Pesca Sportiva).

Il brevetto era però molto ambito perché il prestigio di Duilio Marcante era molto grande e spesso lo stesso Jacques Costeau si rivolgeva a lui quando gli serviva qualche nuovo sommozzatore. Per questo motivo il brevetto poteva anche aprire le porte ad un lavoro, molto ben pagato, nel settore delle attività subacquee.

Due dei diplomati di Ferrara negli anni precedenti avevano deciso di lavorare per società che operavano sott’acqua. Entrambi erano pagati moltissimo ma entrambi facevano lavori alquanto pericolosi: uno scendeva a 90 metri con respiratore ad aria nello stretto di Messina nell’ambito di uno studio per la realizzazione del ponte e l’altro si immergeva nel Po alla ricerche di mine e bombe d’aereo inesplose per la costruzione del ponte sul Po per l’autostrada Bologna – Padova.

Entrambi passarono a trovarci e ci raccontarono cosa facevano. Il primo era Guido Giusti e ci raccontò che scendeva a novanta metri con il respiratore ad aria vi rimaneva tre minuti facendo le osservazioni o le misure che gli erano richieste e poi iniziava la risalita e la decompressione che durava più di due ore.

L’aria nelle bombole non era assolutamente sufficiente per cui gli veniva calato con una sagola un altro bibombola a 40 metri di profondità per continuare la decompressione che era fatta tutta in acqua. Se non avesse trovato il bibombola sarebbe stato a rischio di una gravissima embolia perché a bordo dell’imbarcazione di appoggio non vi era una camera iperbarica dato che allora erano poco diffuse e presenti solo negli ospedali importanti. Il suo quindi era un lavoro pericoloso ma anche molto noioso con lunghi periodi passati in acqua appesi ad una sagola senza aver nulla da fare. Lo rividi poi, vario tempo dopo e ci raccontò che ora avevano una camera iperbarica a bordo per cui faceva una decompressione molto più corta che poi completava nella camera iperbarica a bordo del battello di appoggio.

L’altro stava facendo questo lavoro di sminamento nel Po ed anche questo era un lavoro pericoloso ma noioso. Infatti con il cerca-mine venivano individuati tutti gli oggetti sospetti (cioè qualunque oggetto metallico) e poi lui si immergeva in un’acqua torbida e con forti correnti, raccoglieva con delicatezza l’oggetto e lo riportava in superficie dove veniva esaminato.

Quasi sempre si trattava di vecchie latte, rottami vari e perfino vasi da notte ma non lo si poteva sapere con certezza finché non giungevano in superficie ed il rischio che fosse veramente qualcosa di esplosivo c’era sempre dato che, durante la guerra, in Po era stato buttato di tutto e che i ponti di Pontelagoscuro, non molto distanti da lì, erano stati oggetto di pesantissimi bombardamenti tali da radere al suolo l’intero paese.

Per di più gli inglesi avevano anche fatto degli “spezzonamenti” cioè degli attacchi aerei con bombe da un chilo. Non si sa a cosa servissero contro un ponte di ferro ma fecero molti morti fra i civili ed era sicuramente possibile che alcune di queste bombette giacessero inesplose sul fondo del Po.

C’è chi mi ha detto che si trattava di Luigi Molinari che morirà il 28 ottobre 1996, durante un’immersione del Lago di Garda assieme al figlio. Non so se fosse lui, di lui si dice che era stato incursore subacqueo ma non mi ricordo aver sentito tale particolare relativamente al subacqueo che conobbi tanti anni fa.

Sapere quanto erano pagati suscitò un discreto interesse fra i miei compagni di corso. Infatti Guido Giusti percepiva circa 500.000 lire al mese e l’altro subacqueo 350.000 che, nel 1967, erano stipendi favolosi.

Anche il nostro istruttore, che si chiamava Camanzi ma del quale non ricordo il nome proprio, aveva ricavato qualcosa andando sott’acqua ma si trattava di una cifra modesta (diecimila lire) per una attività una tantum alquanto curiosa: in uno zuccherificio si era bloccata la valvola che permetteva il passaggio dello sciroppo di zucchero dalla piscina da dove veniva poi mandato alla lavorazione successiva. Qualcuno aveva pensato che, invece di vuotare tutta la vasca si poteva pagare un sub perché scendesse a vedere cosa era successo.

Camanzi si era così immerso nello sciroppo di zucchero utilizzando un ARO a circuito chiuso e con maschera granfacciale e a tastoni perché non vedeva nulla aveva liberato la valvola da ciò che la bloccava riportando in un superficie un bel topaccio ormai perfettamente candito!

Nel 1994, parlando di sub con un mio conoscente, sono venuto per caso a sapere che conosce Guido Giusti e così ho avuto qualche notizia su di lui. Il mio conoscente mi ha detto che Guido ha lavorato per tanti anni come dipendente arrivando anche sui trecento metri con l’elio. Poi si è messo in proprio e lavorando come corallaro, usa l’aria ed arriva anche a passare i cento metri, quindi ai limiti d’uso di tale respiratore. Deve correre dei grossi rischi tanto che mi viene raccontato che una volta sarebbe svenuto ed arrivato a 142 metri di profondità cioè 11 metri oltre il limite mondiale! Non mi è chiaro come ciò possa essere successo (che fosse sagolato a qualcuno sopra di lui che lo teneva d’occhio?) ma del resto chi mi racconta ciò è un’alpinista e non un subacqueo quindi poco esperto dell’argomento.

Oltre a me, quell’anno si iscrissero al corso altri cinque aspiranti subacquei ferraresi e che erano Corrado Ballotta, Armando Bentivogli, Silvano Rodi, Marco Malaguti ed un altro ragazzo del quale non ricordo il nome perché non superò l’esame finale a Nervi (era bravo ma venne considerato che non avesse sufficiente calma, inoltre era poco preparato in teoria) per cui non venne citato nel trafiletto che uscì sul giornale locale.

Uno di questi aveva già frequentato il corso dell’anno precedente ed aveva ottenuto il brevetto di I grado A ma aspirava ad avere quello di I grado B che era indispensabile per poter fare il corso da istruttore e che era di maggior prestigio per chi volesse scegliere la subacquea come professione.

Quando mi è venuto in mente ciò ho subito pensato a Marco Malaguti ma ritengo più probabile che questo ricordo non si riferisca a lui bensì ad Armando Bentivogli.

Uno dei nostri compagni aveva deciso di dedicarsi alla subacquea dopo aver avuto due brutte esperienze come paracadutista e mi sembra (anche se non sono certo al 100%) che si trattasse di Marco Malaguti. Una volta gli era successo di vedere sotto di sé un bel prato verde su cui stava scendendo ma mentre scendeva ha visto che il prato era attraversato da una sottile striscia marrone. A quell’epoca i paracadute avevano una manovrabilità scarsissima per cui non ha potuto far niente ed ha centrato la striscia in pieno scoprendo che si trattava di un fosso colmo di liquami nei quali si è piantato fino al collo. Ovviamente la cosa non gli è affatto piaciuta ma ancora meno gli è piaciuto il pensiero che, se il fosso fosse stato più fondo e quindi lui si fosse piantato più giù, sarebbe soffocato sicuramente.

La seconda volta partecipava ad un lancio multiplo ad una esibizione aerea dove lui era il primo della fila. All’ultimo momento il pilota dell’aereo sospese il lancio perché c’era troppo vento ma lui si era già lanciato. Il vento lo ha sospinto sopra un vigneto di quelli dove le viti sono sorrette da fili metallici attaccati a pali di cemento con una tripla punta rivolta verso l’alto. Mentre scendeva la preoccupazione su quello che gli poteva succedere era aumentata dal fatto che il paracadute concentrava i suoni provenienti da basso e sentiva la gente che diceva “si ammazza, si ammazza”. Ha messo le gambe nella posizione giusta, ha tranciato qualche vite e qualche filo di ferro ma non avendo, fortunatamente, centrato alcun palo non si è fatto male ma ha deciso di smettere di fare il paracadutista.

Il corso consisteva, oltre ad una parte teorica alquanto seria (che ci veniva spiegata da Giordano Bonfanti a casa sua), in continui allenamenti per riuscire a superare tutti quegli esercizi che avrebbero poi costituito le prove d’esame. Non era però sufficiente superare l’esercizio ma occorreva farlo anche con stile e cioè senza mostrare indecisioni, affanno o preoccupazione.

Inoltre, proprio per abituare l’allievo all’emergenza, durante l’esercizio l’istruttore poteva fare all’allievo simpatici scherzetti quali strappargli all’improvviso la maschera dal volto o chiudergli la valvola dell’aria.

Alcuni degli esercizi erano effettuati senza alcuna attrezzatura e cioè in costume da bagno ed erano:

partendo con un tuffo e rimanendo ad una profondità costante, percorrere 25 metri sott’acqua in apnea nuotando a rana;

nuotare in superficie a stile libero percorrendo 33 metri in meno di 30″;

raccogliere, uno alla volta, quattro oggetti posti a 4 metri di profondità facendo un’unica inspirazione tra un’immersione e l’altra ed impiegando meno di 40″ in tutto;

stando verticali e muovendo le gambe a rana, stare fermi in superficie per più di un minuto reggendo con una mano un peso di piombo di cinque chili [Questo esercizio sembra facile ma era invece uno dei più difficili e temuti. Era divertente vedere chi lo affrontava per la prima volta che partiva con apparente facilità ma che, dopo qualche secondo, cominciava a sprofondare lentamente e ad affannarsi sempre di più finché spariva sott’acqua e dopo qualche secondo, riemergeva in mezzo a tante bolle mentre il peso sfrecciava velocissimo verso il fondo della piscina].

Altri esercizi andavano svolti con pinne, maschera e boccaglio ed erano:

effettuare la cosiddetta vestizione subacquea consistente nel buttare sul fondo della piscina, a quattro metri di profondità, pinne, maschera e boccaglio e immergendosi in apnea, indossare tutto, svuotare la maschera dall’acqua soffiando piano dal naso e una volta saliti in superficie, svuotare anche il boccaglio con un soffio deciso;

scendere sul fondo della piscina e risalire con la schiena sempre incollata ad una parete tenendo le gambe a squadra (90°) rispetto al busto;

scendere sul fondo della piscina e risalire con le gambe in alto ed incollate ad una parete tenendo il busto a squadra (90°) rispetto alle gambe;

stando fermi e zavorrati sott’acqua riempire la maschera d’acqua e poi vuotarla soffiando lentamente dal naso senza far fuoriuscire delle bolle. L’esercizio andava fatto per due volte consecutive, ovviamente senza riemergere, ed andava usata una maschera di vecchio tipo di quelle tonde e molto grandi [Poco tempo dopo, vedendo il film Agente 007, Thunderball – Operazione tuono che ha molte scene subacquee, mi sono molto divertito nell’osservare come Sean Connery, usando un respiratore, svuoti la sua maschera facendo un mucchio di bolle, perché mi sono ricordato di quanto diceva Marcante di quelli che riescono a svuotare una maschera solo perché il respiratore gli dà tanta aria che potrebbero svuotare una botte].

Gli esercizi con il respiratore utilizzavano sia l’ARA a circuito aperto (il moderno autorespiratore), sia l’ARO a circuito chiuso (il respiratore ad ossigeno puro utilizzato durante la Seconda Guerra Mondiale) ed erano:

effettuare la vestizione subacquea indossando anche un bibombola (messo sul fondo con la valvola chiusa);

percorrere 66 metri in due sott’acqua utilizzando un unico bibombola con un solo erogatore;

effettuare la vestizione subacquea indossando anche un respiratore ad ossigeno con sacco polmone a circuito chiuso ed i pesi;

stare cinque minuti sul fondo utilizzando in tre un unico respiratore ad ossigeno con sacco polmone a circuito chiuso.

L’esame si sarebbe tenuto a metà settembre presso il Centro Federale di Nervi e l’esaminatore sarebbe stato lo stesso Duilio Marcante. A differenza di quanto si sarebbe fatto in seguito, allora, per passare l’esame, occorreva superare tutti gli esercizi, uno dopo l’altro ed occorreva anche farlo con stile.

A questo proposito c’è un curioso aneddoto che riguarda un campione italiano del quale non ricordo con certezza il nome (mi viene in mente Massimo Scarpati ma non credo fosse lui). Duilio Marcante gli aveva detto che non era bello per la scuola di Nervi che un campione come lui non fosse brevettato e l’aveva convinto a sostenere l’esame perché tanto, con la sua bravura, non aveva certo bisogno di fare il corso. Marcante però si era poi divertito a fargli ripetere gli esercizi innumerevoli volte con frasi del tipo sì, l’esercizio andrebbe bene se fatto da un qualsiasi allievo ma da uno come te lo vorrei fatto badando un po’ di più allo stile, fammelo un’altra volta. Così è successo che, quando questo campione aveva finito e stava andando via, incontrando degli allievi venuti a dare l’esame, li aveva messi in guardia, con salaci parole [per l’esattezza aveva detto state attenti che vi fanno un culo così!], sulla durezza dell’esame stesso.

Il 16 settembre 1967, in un piccolo gruppetto, ci siamo recati al Centro Federale di Nervi dove, appena arrivati, ci hanno subito messo a fare esercizi nella piscina di acqua di mare di cui era dotato il centro. L’esame ci è stato fatto il giorno successivo ed è stato veramente duro, anche perché ci hanno fatto rifare anche tutti gli esercizi che avevamo già superato il pomeriggio precedente.

Duilio Marcante mi ha veramente impressionato perché, nonostante non fosse più un ragazzino (aveva allora circa 53 anni), era sempre dentro e fuori dall’acqua senza mai accennare ad asciugarsi o a coprirsi benché la giornata fosse alquanto frescolina ed ovviamente in acqua era a suo agio come un pesce.

La commissione d’esame era costituita da Duilio Marcante, Giordano Bonfanti e dall’istruttore federale Sergio Canu. Oltre a me, i subacquei ferraresi che hanno conseguito il brevetto quel giorno sono stati Corrado Ballotta, Armando Bentivogli, Silvano Rodi e Marco Malaguti.

Inizialmente era nato un problema perché per dare l’esame bisognava essere diciottenni e mancava ancora qualche giorno al mio compleanno, ma poi si è convenuto che era assurdo pretendere che tornassi a Nervi, pochi giorni dopo, per fare l’esame da solo e si era deciso che potessi dare l’esame ma che sul brevetto sarebbe risultata la data del mio compleanno.

Quando però sono stati materialmente preparati i brevetti ci si è dimenticati di questo fatto e si è scritta come data d’esame quella vera del 17 settembre 1967, per cui, per qualche tempo, sono stato sicuramente il più giovane sommozzatore brevettato d’Italia!

Nel 1968 il Gruppo Subacqueo Ferrarese si era limitato ad organizzare i nuovi corsi per i brevetti e così anche nel 1969 ma, in quell’anno, i brevettati erano stati parecchi per cui si riuscì a riorganizzare l’associazione che era arrivata a contare ben 78 soci.

Ci si trasferiva in una sede propria, sita in via Comacchio, 3, e si dava inizio all’attività agonistica. A quell’epoca l’unica attività agonistica possibile era la partecipazione a gare di pesca subacquea (che si svolgevano tutte, rigorosamente, in apnea) e così alcuni subacquei ferraresi hanno partecipato, per la prima volta, ad una importante gara internazionale che si svolgeva a Lussinpiccolo il 2 gennaio 1970.

Diventare un bravo pescatore subacqueo non è facile ed i sub ferraresi avevano esperienza in un mare ben diverso da quelli dove di solito si immerge chi vuol fare caccia subacquea, così, non solo per ragioni logistiche, la gara alla quale partecipavano più subacquei ferraresi era la Coppa Polinara che era una importante gara a livello nazionale che serviva anche come qualificazione ai Campionati Italiani di prima e di seconda categoria. Chi l’avesse vinta avrebbe acquistato il diritto di entrare nella strettissima rosa dei partecipanti al Campionato Italiano di Prima Categoria che all’epoca vedeva fra i suoi partecipanti anche dei campioni del mondo dato che ai vertici del settore delle gare di pesca subacquea vi erano allora vari atleti italiani. Nel 1970 la coppa era arrivata all’VIII edizione. La gara si svolgeva a Marina di Ravenna di fianco ad uno dei due lunghissimi moli che delimitano il porto di Ravenna. La giornata però non fu per niente favorevole e le prede non si fecero vedere cosicché uno solo degli otto partecipanti ferraresi (Gabriele Covi, di gran lunga il più forte pescatore subacqueo ferrarese) riuscì a classificarsi giungendo decimo su 62 partecipanti.

Alcuni anni dopo Gabriele Covi partecipò alla spedizione di Jacques Mayol nel Lago Titicaca per effettuare vari esperimenti medici (dove lui era una delle cavie) e studiare il corpo umano in immersione ed in alta quota.

Questi studi hanno tuttora una loro importanza. Recentemente ho seguito una conferenza del professor Zamboni che ha recentemente degli esperimenti sugli astronauti in orbita per studiare alcune ipotesi sulle cause dell’Alzheimer. Ci ha spiegato su come facevano ora gli esperimenti con macchinari ultramoderni e come si sarebbero fatti tempo fa senza tali macchinari ed il suo racconto mi ha ricordato quanto mi diceva Gabriele Covi, così gli ho chiesto se avevano pensato di cercare anche i dati raccolti in situazione diverse da quelle degli astronauti ma comunque estreme come quelle di un uomo sott’acqua ed ho scoperto che era perfettamente informato della spedizione scientifica in questione.

Alla Coppa Polinara partecipai anch’io ed anche se non presi pesci abbastanza grandi per superare la misura minima prevista, vidi lo stesso qualcosa di molto curioso: si trattava di un granchietto, del tutto simile a quelli della sabbia, che nuotava tranquillo in acqua libera agitando sopra il guscio l’ultimo paio di zampe e muovendosi come un elicottero. Quando mi avvicinai si spaventò e cercò di scappare ma come allungai una mano, corse a nascondersi sotto!

Non avevo mai sentito parlare di un granchio come questo e per molto tempo non ho saputo cosa fosse. Solo dopo molti anni ho scoperto che si tratta effettivamente di un tipo di granchio delle sabbie che sa nuotare (il Liocarcinus depurator) e che però vive in mare aperto standosene a bordo di una medusa, detta medusa polmone (Rhizostoma pulmo) che lo trasporta a mo’ di barca.

Nel 1971 vari subacquei ferraresi avevano voglia di fare qualcosa di diverso e di maggior interesse della pesca subacquea. Così, all’interno del Gruppo Subacqueo Ferrarese, si era costituito un Gruppo Naturalisti e Speleologico. La spedizione più interessante che si riuscì ad organizzare (assieme al Gruppo Speleologico Ferrarese) fu la prima esplorazione assoluta dell’Antro della Pollaccia nelle Alpi Apuane di grande interesse speleologico.

Alla spedizione partecipai anch’io ed un dettagliato racconto di come si svolse si può leggere sul mio sito all’indirizzo www.andreacavallari.it/Biografia/Biografia8a.htm#D.

(Nella foto in evidenza: in piedi da sinistra Andrea Cavallari, Silvano Rodi, Armando Bentivogli; accosciati un ragazzo di cui l’autore non ricorda il nome, Marco Malaguti, Corrado Ballotta)

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