Vito Foderà e la pesca nel golfo di Castellammare a fine 800

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Accade che la vita di un territorio possa scriversi anche attraverso testimonianze di avvenimenti minimi, scartati dalla storiografia ufficiale, episodi marginali che non hanno mai trovato posto sulle pagine dei libri o nei registri conservati (dimenticati?) negli archivi. Succede anche che quelle storie emergano come d’incanto dalle macerie di uno stabilimento industriale condannato all’autodistruzione. E poiché stavolta si tratta di storie di mare, l’opificio non poteva che essere una tonnara. Anzi, la tonnara più amata in Sicilia, quella del Secco a San Vito lo Capo, votata quale luogo del cuore del FAI nell’Isola, che però ogni giorno vede crollare un pezzo dei suoi nobili edifici realizzati a partire dal 1872 dal cavaliere Vito Foderà, acclamato signore del Golfo di Castellammare, già proprietario della tonnara di Magazzinazzi e cointeressato ad altri impianti nel golfo che da Capo Rama arriva a Capo San Vito.

La prima pagina della lettera

Una lettera datata 19 agosto 1896, invero una bozza chissà se poi finalmente inviata, emerge dalle macerie del Palazzotto, fra eleganti stucchi crollati e pavimenti divelti, un lontano giorno di primavera alla fine del millennio scorso, e assieme ad altre carte consunte dal tempo e dalle intemperie finisce nelle mani dell’amica Vittoria, che dopo un po’ me ne farà graditissimo dono. Non sapevo, allora, che alla tonnara del Secco avrei dedicato il mio libro più amato (San Vito lo Capo e la sua Tonnara. I Diari del Secco, una lunga storia d’amore, Magenes, Milano, 2017), ma quel documento vergato con grafia elegante e ridondante nel verbo l’ho conservato con amore, certo che un giorno ne avrei fatto l’uso migliore. Rileggerlo al momento della sua pubblicazione nel libro sulla tonnara ha aperto una ulteriore finestra su un mondo che amo – la pesca e i pescatori – e su una realtà economica e sociale troppo lontana per averne memoria e troppo vicina perché sia riconosciuta quale storia.

Mentre Vito Foderà gestiva le tonnare del Secco e di Magazzinazzi con l’amministratore Nenè Bergamini e con la collaborazione di Giovannino Plaja che di lì a poco col fratello Giuseppe gli sarebbe subentrato prima nella conduzione e poi nelle proprietà della tonnara sanvitese, lo stesso era contemporaneamente rappresentante della marineria di Castellammare, il suo paese, e delle altre marinerie del grande Golfo. Siamo alla fine dell’Ottocento, e già quel mare conosciuto e apprezzato per la ricchezza dei fondali prodighi di ogni tipo di pesce, veniva aggredito da un nemico che aveva nome e forma: la pesca a strascico effettuata dalle barche o da terra, e in questo caso prendeva il nome di “sciabica”. La piccola pesca, fatta con brevi tratti di rete, con le nasse e le lenze, con le “tratte” per il pesce azzurro, rischiava di venire schiacciata da quella “industriale” dello strascico, e centinaia di famiglie temevano di essere condannate alla fame.

Vito Foderà si rivolge al Ministro Commissario per la Sicilia che ha sede a Palermo, e lo fa nella qualità di «Presidente della Marina Pescareccia di Castellammare del Golfo ed anco a nome della marina pescareccia di Balestrate e Terrasini che anno sempre reclamato di accordo». Era successo che pochi giorni prima, il 10 agosto, il Prefetto di Palermo «per esperimento», certamente recependo analoghe istanze dei piccoli pescatori palermitani, aveva vietato la pesca a strascico a levante e a ponente della capitale isolana, da Capo Zafferano a ovest a Capo Cefalù ad est; già l’enorme Golfo, sede di famose tonnare (Sicciara/Balestrate, Magazzinazzi, Castellammare, Scopello, Uzzo, Secco) mostrava segni di impoverimento ittico: «a causa della pesca con reti a strascico tirate da galleggianti o dalla spiaggia, cioè l’uso della paranza e simili è venuto già meno il prodotto, per quanto centinaia di famiglie di pescatori hanno fatto lotta con la miseria» scrive nella missiva Foderà. Ora il divieto dello strascico nei vicini mari palermitani rischiava di fare spostare a ponente centinaia di pescatori: «tale provvedimento riesce micidiale per le suddette marine Castellammare, Balestrate, Terrasini, Isola delle Femmine, San Vito lo Capo perché nel Golfo nostro da oggi in poi verrà un maggior contingente di pescatori i quali non potendo frequentare la loro zona di mare son costretti avere sfogo nel nostro golfo sterilizzando così ogni risorsa avvenire della piccola pesca».

Il timore è duplice, l’impoverimento di centinaia di famiglie la cui vita scorreva sul filo di rasoio della miseria, e il pericolo che possano verificarsi episodi di violenza tra pescatori, e per questo il presidente delle marinerie del Golfo chiede l’intervento risolutore del Ministro: «Costretti così a patir sufficientemente di fame, il ricorrente a prevenire fatti di sangue ai quali potrebbero abbandonarsi le disperate famiglie di pescatori prega, fa voti a S. Eccellenza perché lo stesso provvedimento venga esteso a questo Golfo da Capo Gallo a Capo San Vito. Tanto egli prega con la pienezza di ottenerlo pel bene di tante infelici famiglie e per il mantenimento dell’ordine pubblico».

Non sappiamo se il rappresentante del Governo nazionale abbia ascoltato o meno la supplica del cavaliere Foderà, ma purtroppo non dovettero passare troppi decenni perché «il Golfo di Castellammare per tradizione […] ritenuto il più importante per l’abbondanza del piccolo pesce che vive nei Golfi» nel quale «hanno attinto il mezzo di vivere un esterminato numero di famiglie dei Comuni suddetti cioè Castellammare, Balestrate, Terrasini, Isola delle Femmine, S. Vito lo Capo» venisse stressato quasi a morte non tanto dalle reti trainate sui fondali, ma dagli scarichi industriali che troppo a lungo hanno ammorbato quei fondali baciati dal dio del mare, costringendo allo «spegnimento», l’una dopo l’altra, le gloriose tonnare di Balestrate (“Sicciara”), Castellammare, Magazzinazzi, Secco, Uzzo, Scopello. Oggi la situazione del mare è migliorata, per l’impiego di depuratori e anche per lo «spegnimento» di tante industrie a terra, causa di nuova miseria.

Diario della Tonnara 1912

Ho potuto scrivere il mio libro sulla Tonnara del Secco a San Vito lo Capo – l’unico finora su questo impianto di pesca – grazie alla generosa e intelligente disponibilità della famiglia Plaja, che nel 1929 ha acquistato edifici, barche, diritti di pesca, e fino al 1970 ha gestito direttamente le stagioni delle mattanze. Tra i beni dei fratelli Giovannino e Giuseppe Plaja che comprarono dai Foderà (loro stretti parenti), passati in eredità ai ventuno figli dei due, ci sono anche i preziosi Diari del Secco che coprono un arco di tempo che va dal 1914 (gestione Foderà) al 1970 (anno dell’ultimo calo). Scritti da amministratori e proprietari con accurata grafia e ottima proprietà di linguaggio, i diari costituiscono un documento preziosissimo perché riportano importanti elementi relativi all’andamento della pesca, ai rapporti sociali in seno alla comunità della tonnara, alla climatologia (ogni giornata si apre con la descrizione del tempo), al divenire del paese di San Vito lo Capo che da borgo di marinai e contadini è diventato una perla del turismo italiano.

Se Ettore Plaja – figlio di Giuseppe – con la moglie Idelia e le figlie Renata, Manuela, Monica e Marina non avessero conservato con amore e cura i “Giornali” della tonnara, ma soprattutto se non avessero avuto la sensibilità di metterli a disposizione di un pubblico ampio, nulla avremmo continuato a sapere di questa tonnara e degli uomini che la condussero. Valeria Plaja – nipote di Giovannino – ha messo a disposizione le fotografie d’epoca, e tutti insieme siamo riusciti a dare alle stampe un volume ricco di notizie e immagini. Abbiamo salvato la memoria della Tonnara del Secco.

Nel patio del Palazzotto, Renata e Monica Plaja, 1965 (prop. Renata Plaja)

Purtroppo non sempre le cose vanno così. Mille altri archivi privati, se non già distrutti dal tempo e dall’incuria, giacciono dimenticati, ostaggio della gelosia dei loro detentori che non li assegnano al bene pubblico né li mettono a disposizione perché la storia avita divenga patrimonio di tutti. In alcuni casi magari non si sono verificate le fortunate coincidenze come il mio incontro con la famiglia Plaja in occasione delle Giornate del FAI (conoscerci e intenderci, mettere in piedi il nostro progetto editoriale/culturale è stata roba di un attimo); in altri forse permane l’attaccamento alla “roba” seppure immateriale.

Per restare in tema di tonnare del trapanese, nulla o quasi sappiamo degli impianti di Magazzinazzi e Castellammare, pochissimo di Scopello; studi approfonditi sono stati condotti sulle tonnare di Favignana, Formica e Bonagia grazie alla disponibilità di documenti ben conservati. Nulla è comunque perduto, se gli archivi sono ancora esistenti (e alcuni lo sono per certo, almeno in buona parte); ai loro detentori il compito di decidere se metterli a disposizione perché la memoria non vada perduta, oppure se continuare a trascurarli per un malinteso senso di possesso.

Di Ninni Ravazza

Tratto da Dialoghi Mediterranei, n.28, novembre 2017

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